Ho letto il libro di Giuseppe Catozzella Italiana e devo ammettere che il romanzo funziona e si legge con piacere. Detto ciò devo anche confessare che non sono riuscito a leggerlo semplicemente come un romanzo. Questa lettura particolare mi ha lasciato alcune perplessità nell’ambito del contesto storico e vorrei illustrarle.
L’autore ci presenta il brigantaggio come lotta di classe. Una tesi gramsciana, poi riproposta dagli anni sessanta dalla storiografia di sinistra. Interpretazione che attribuisce al brigantaggio un carattere simile al banditismo sociale (si vedano a tal proposito i lavori di Eric Hobsbawn come I ribelli e I banditi[1]), impostazione che ritorna anche in Catozzella con l’immagine del bandito che taglieggia i potenti per ridistribuire ai poveri, i quali in cambio garantiscono il proprio sostegno nelle località in cui dimorano. L’odierna storiografia ha respinto questa tesi.
In realtà il brigantaggio non fu lotta sociale, ma fu alimentato dai legittismisti della casa di Borbone. Per mezzo di ex ufficiali e dello Stato Pontificio, rappresentato dal clero, i Borboni tentarono di destabilizzare lo stato unitario appena creato e dal futuro ancora incerto. Questi personaggi cercarono, in parte riuscendovi, di coinvolgere gli abitanti delle zone rurali più povere e impervie. Quando la speranza di riconquistare lo stato perduto venne meno, cessarono anche gli appoggi al brigantaggio.
Possiamo aggiungere che i briganti erano tutto tranne che novelli Robin Hood, erano spesso criminali che non si facevano grossi scrupoli nell’utilizzare la violenza.
Un altro punto che non può convincermi è l’uso che Catozzella fa di tre topoi del risorgimento; questi tre momenti sono molto ricorrenti negli scrittori neoborbonici.
Il primo è l’episodio di Pontelandolfo. Il comune venne dato alle fiamme per rappresaglia dopo che i briganti l’avevano occupato e ucciso 45 soldati. Nel romanzo questo evento viene evocato riportando la voce che i soldati avevano provocato mille morti. La notizia non vera si potrebbe attribuire ad una falsa notizia circolante al momento, ma in quegli anni nessuno ha mai dato una cifra simile. I mille morti sono un’invenzione recente, degli anni duemila.
Silvia Sonetti in L’affaire Pontelandolfo[2] ricostruisce con una puntuale ricerca storiografica di come il mito di Pontelandolfo sia arrivato ai nostri giorni attraverso varie mutazioni, ingigantendo il numero delle vittime, che sono passate nel corso di 150 anni dalle 13 reali a mille[3]. Nella vicenda di Pontelandolfo, se in un primo tempo parte del tessuto sociale del territorio fu connivente con i briganti, dopo l’occupazione del paese gli abitanti si rivoltarono contro gli insorti e fecero terra bruciata attorno a loro contribuendo in seguito alla cattura.
Il secondo topos, accennato tra le righe, è il carcere di Fenestrelle in provincia di Torino, che secondo la mitologia (la chiamo così perché storiografia sarebbe scorretto) neoborbonica sarebbe un autentico lager. Alessandro Barbero in un pregevole libro di critica storiografica, Prigionieri dei Savoia[4], ha dimostrato come le fonti utilizzate dagli scrittori neoborbonici fossero inattendibili, riportando il forte di Fenestrelle alla dimensione di ordinario carcere dell’ottocento, di certo non confortevole, ma nello standard del periodo.
Terzo luogo della memoria risorgimentale a cui si richiama Catozzella è Bronte, con la classica lettura in cui Bixio riporta l’ordine a scapito di chi reclamava la terra. Su di esso e su quanto sia molto più complessa la questione e di come si innesti su di un conflitto che ha radici più lontane rispetto a ciò che riportano i manuali di storia, Lucy Riall ha scritto un bel libro (La rivolta. Bronte 1860[5]). L’interesse della storica inglese non è casuale, poiché Bronte era un feudo dei discendenti di Nelson, l’eroe di Trafalgar. Bronte dà la misura di quanto sia stata fondamentale per Garibaldi la creazione dello stato unitario, non poteva inimicarsi gli inglesi che stavano proteggendo con le loro navi la spedizione. È vero che Garibaldi promise la ridistribuzione delle terre e che questa promessa rimase lettera morta, ma non era quella la sua priorità. Garibaldi, il repubblicano, consegnò lo stato ad una dinastia che lo aveva condannato a morte, poiché il suo ideale principale era uno stato unitario italiano con capitale Roma; tutto il resto passava in secondo piano e doveva essere funzionale a questo principio irrinunciabile.
Mi soffermerei inoltre sull’odio della protagonista verso le élite locali, ree di essere salite sul carro dei vincitori per mantenere il potere e sfruttare la povera gente. Il tradimento della classe dirigente nei confronti dei Borboni fu evidente, ma questo fu motivato dal fatto che vedevano lo stato sgretolarsi a grande velocità; questa defezione delle élite sociopolitiche permise ai garibaldini di avanzare più in fretta verso la capitale del regno. Era ormai palese agli occhi della maggioranza delle classi dirigenti che lo stato era logoro e non era più in grado di rigenerarsi.
Infine vorrei segnalare quelli che mi appaiono come due anacronismi.
La protagonista paragona l’annessione degli stati borbonici alla scoperta dell’America con il conseguente genocidio degli indigeni, individuando in Colombo il capro espiatorio della vicenda; questo punto di vista, in voga ai giorni nostri, non era pensabile nell’ottocento, è una interpretazione che trova la sua origine alla fine del novecento.
Secondo anacronismo: lo spirito ecologista di Cicilla nei confronti dei boschi e il suo desiderio che vengano preservati e non devastati per costruire le ferrovie.
Nell’ottocento la ferrovia era il simbolo del progresso per eccellenza, per un brigante o un bandito la percezione era opposta, aveva interesse a che venissero preservati i boschi, poiché erano il luogo in cui trovava riparo e protezione. Storicamente, e lo sarà ancora per un certo periodo, la tutela del bosco era dovuta esclusivamente a motivi militari o economici, non certo ecologici.
Al di là di queste osservazioni, gran parte tecniche, ribadisco che la lettura del romanzo è assolutamente gradevole.
per BookAvenue, Davide Zotto
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note:
[1] Eric J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi. Id., I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi.
[2] Silvia Sonetti, L’affaire Pontelandolfo. La storia, la memoria, il mito (1861-2019), Viella
[3] Da segnalare che anche uno storico avveduto come Salvatore Lupo parla di 400 morti: Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia D’Italia. Guerra e Pace. L’elmo di Scipio. Dall’unità alla repubblica, Einaudi.
[4] Alessandro Barbero, Prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza
[5] Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860, Laterza
il libro
Giuseppe Catozzella,
Italiana,
Mondadori,
ed. 2021 pp.320
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