foto Carver (particolare) dalla copertina ed. einaudi
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Nella cornice culturale degli anni Ottanta, l’onda del minimalismo letterario americano varcò l’oceano, approdando in Europa con una forza che avrebbe ridefinito i paradigmi della narrativa breve. Tra i suoi alfieri più celebrati, Raymond Carver si stagliò con prepotenza, divenendo una figura di culto anche nel panorama editoriale italiano. Spesso indicato, non senza controversie, come il capostipite di questo movimento, ogni sua opera – saggi, racconti, poesie – veniva tradotta con tempestività, quasi a suggellare un rapporto di immediata empatia tra autore e lettori.

Da parte mia, ogni libro di Carver è stato divorato con un’avidità quasi febbrile, come se quelle pagine contenessero un enigma da decifrare, una chiave per accedere a una mappa dell’esistenza umana. Mi colpiva soprattutto il suo realismo disarmante, capace di svelare, con chirurgica precisione, le fratture e le crepe della quotidianità. Ma, più ancora, mi affascinava quella vena sottile, quasi impercettibile, di surrealtà: un’ombra che si insinuava tra le righe, conferendo alla narrazione un’aura di mistero, come se Carver volesse dirci che dietro ogni gesto banale si nasconde un abisso.
Carver è un autore divisivo per alcuni, un maestro per altri, un narratore sopravvalutato. Ma se c’è un racconto che consiglio a chiunque voglia avvicinarsi alla sua opera, è “Cattedrale”. Questo testo rappresenta, a mio avviso, uno degli apici della sua arte. La trama è semplice, ma intrisa di una potenza simbolica che va ben oltre l’apparenza.

Un uomo ospita controvoglia Robert, un vecchio amico cieco di sua moglie. Il protagonista, di indole ruvida e misantropa, affronta la situazione con un malcelato fastidio, prigioniero dei propri pregiudizi e delle sue certezze stereotipate. Nei suoi pensieri, il cieco non è altro che un elemento di disturbo, un’intrusione nella sua routine fatta di apatia e silenzi. Un dettaglio significativo: per ben sei pagine, il nome di Robert non viene rivelato. Questo ritardo narrativo non è casuale, ma rispecchia il rifiuto del protagonista di riconoscere l’altro come individuo, come presenza reale.
Tuttavia, ciò che inizia come un incontro segnato dall’ostilità si trasforma, pagina dopo pagina, in un’esperienza di radicale mutamento. La cena si prolunga in un dopocena fatto di condivisione, e l’ospite cieco, con il suo modo di essere, diventa il catalizzatore di una metamorfosi interiore. Il climax si raggiunge quando Robert invita l’uomo a disegnare una cattedrale, guidando la sua mano con la propria. In quel momento, il protagonista entra in contatto con una dimensione altra: un modo di vedere che non dipende dagli occhi, ma dall’immaginazione, dalla capacità di percepire oltre le forme visibili.
Il gesto di Robert, apparentemente semplice, si carica di una potenza quasi sacramentale. Il suo “vedrai”, pronunciato con calma, evoca una risonanza biblica che richiama il miracolo del cieco di Betsaida. Ma qui l’archetipo viene sovvertito: non è il vedente a guarire il cieco, bensì il contrario. Robert diventa il veicolo di una guarigione spirituale, spingendo il protagonista verso un ribaltamento totale delle sue prospettive.
La frase finale del racconto – “Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo la sensazione di non stare dentro a niente.” – è il sigillo di questa trasformazione. L’uomo, che all’inizio del racconto sembrava incastrato in una gabbia di cinismo e insoddisfazione, scopre una libertà inaspettata, ma anche destabilizzante. Non c’è ritorno alla normalità: il cambiamento è definitivo, come un colpo di dinamite che frantuma l’ordine precedente.

“Cattedrale” è molto più di una storia: è una riflessione profonda sull’incontro, sulla vulnerabilità, sull’empatia. È un viaggio nei margini dell’America, tra famiglie frammentate, uomini segnati dall’alcolismo, vite che si muovono in bilico tra il quotidiano e il tragico. Carver racconta tutto questo con uno stile essenziale, fatto di frasi brevi, dialoghi fulminanti e descrizioni appena accennate, ma mai superficiali.

La semplicità secondo Raymond Carver è un traguardo arduo e meditato, non un punto di partenza. È un processo di raffinazione che richiede un lavoro intenso e calibrato, dove la leggerezza formale nasconde una profonda elaborazione concettuale.
L’architettura del testo carveriano sovverte l’aspettativa comune: non si tratta di abbellire un’idea semplice con una complessità stilistica, ma di giungere a una nudità espressiva attraverso un accurato processo di levigatura. La semplicità diventa allora una forma di sophistication, un linguaggio che si spoglia degli orpelli per rivelare l’autenticità del vissuto.
Quando la critica ha tentato di etichettare questa poetica come “minimalismo” – termine che Carver stesso ha rifiutato – si è in realtà imbattuta in qualcosa di più sottile. Non è minimale ciò che racconta, ma il modo in cui viene raccontato: una narrazione che sceglie la sobrietà come strumento per penetrare gli strati più profondi dell’esperienza umana.
Le tematiche appaiono all’apparenza lineari, quasi banali, ma si rivelano progressivamente come paesaggi interiori complessi, dove la semplicità è maschera di una geografia emotiva ricca e sfaccettata. È proprio in questo movimento, in questo progressivo dispiegarsi, che risiede la vera maestria di Carver.

Per BookAvenue, Marco Crestani


Il lIbro:

Raymond Carver,
Cattedrale,
Einaudi,
ed.2014 pp.231
Traduzione di Riccardo Duranti


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Marco Crestani

"In una poesia o in un racconto si possono descrivere cose e oggetti comuni usando un linguaggio comune ma preciso, e dotare questi oggetti - una sedia, le tendine di una finestra, una forchetta, un sasso, un orecchino - di un potere immenso, addirittura sbalorditivo. Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena… Questo è il tipo di scrittura che mi interessa più di ogni altra. Non sopporto cose scritte in maniera sciatta e confusa…"(Raymond Carver)
http://libereditor.wordpress.com/

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