Tutte le mattine felici si assomigliano. Jonathan Safran Foer

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Leggo dal dizionario Sabatini: casa[cà-sa], sostantivo femminile, 1 Edificio a uno o più piani, di dimensioni e aspetto vari, adibito ad abitazione dell’uomo: c. popolare, signorile || seconda c….etc…, 2 Abitazione, residenza di un nucleo familiare: aprire, chiudere, cambiare c.; cercare, trovare c. || metter su c., andare ad abitare per proprio conto | fare gli onori di c…., etc…, nel gergo sportivo, disputare una competizione sportiva nella propria città o nella città della squadra avversaria || figg. abitare a c. del diavolo, fuorimano | sentirsi a c. propria, a proprio agio | portare a c. la pelle, sopravvivere, salvarsi dalla morte | a c. mia, secondo me, a mio parere | non sapere dove stia di c | c. comune, unione ideale di forze, di intenti, di principi politicamente vicini |, 3 La propria famiglia: saluti a c. || essere tutto c. e chiesa, di persona dedita esclusivamente alla famiglia e molto religiosa >>

***

Philip Roth ha a suo tempo suggerito senza nascondersi tra le righe dei suoi libri, che l’appartenza alla fede ebraica in USA, in un ambiente dove si è cresciuti nella libertà religiosa e nell’altrettanto clima di libertà dei/nei consumi, è diventata oggi una cosa un po’ complicata. Peggio, man mano che le generazioni si susseguono, si instaura la consapevolezza che sì, si appartiene a “quella” fede, ma di qui a seguitarne i riti ce ne passa.

Della serie: 1-Posso mangiare un pezzo di pane caldo che non sia Challah?, e poi, 2-Il rispetto per i genitori può essere barattabile con una modesta contestazione quando non si è d’accordo su qualche cosa? 3-Alla luce del conflitto tra fede e modernità ha, dunque, ancora senso il proverbio “l’anno prossimo a Gerusalemme?”, rinnovando il mito dell’eterno ritorno dell’ebreo errante?

Come Roth allora e altri autorevoli autori oggi, Safran Foer indaga da un po’ di tempo con grande dedizione, l’analisi di queste questioni. Immagino che le domande del protagonista nel suo bellissimo ultimo libro, siano pure le stesse sue di sempre; indipendentemente da essere o no uomo di fede.

La dichiarazione di questi buoni propositi sta già nel titolo del romanzo tratto dal libro della Genesi, Eccomi, ma le pagine indagano anche su altro. La percezione che diamo alla parola “casa”, senza escludere tutto l’armamentario di valori che diamo a questo sostantivo che, come una borsa piena di tante cose, ne comprende altre tipo: amore, storia famigliare, moglie, marito, figli, mamma, babbo, nonna, nonno etc…

Per chi mi segue, il tema mi sta a cuore da un sacco di tempo forse perché, confesso, cerco nelle parole di altri qualche risposta che mi aiuti ad elaborare la mia irrisolta storia famigliare. Di come babbo mi spedì lontano da casa a studiare per tenermi alla larga da certi gruppettari, si diceva allora, dimentico che eravano alla fine degli anni settanta e che tutto il mondo era un po’… gruppettaro. E sono del tutto persuaso che, a scavare, molti di noi hanno qualche cicatrice di qualcosa di non risolto tra le pareti di casa di mamma. Chi più chi meno, ma è un dato di fatto. Per dire che, leggere questi autori, può essere anche economicamente vantaggioso non fosse per il risparmio di quattrini ottenuto dal sottrarsi dal lettino di un terapista dell’anima. (A proposito di ferite non guarite, vi segnalo oltre il Roth di Operazione Shylock e di Everyman, anche Paul Auster con Sunset Park. Di questi ultimi, me ne sono occupato tempo fa).

Nel libro, i Bloch vivono da quattro generazioni una comoda vita famigliare. La loro storia ha le ombre di molti di coloro che fuggirono dall’Europa negli anni bui del nazismo e vivono con l’ambigua promessa nel considerare il ritorno in madre patria come un’ultima istanza di felicità.

La lettura è impegnativa, lo dico a chi deve ancora cimentarsi con le 700 e più pagine di Eccomi. Foer dedica a questa pastorale i contenuti che le sono dovuti. La storia è secolare e sacra nella misura in cui diamo queste accezioni alle storie delle nostre famiglie. Dolori e gioie compresi. E’ come guardare un filmino in bianco e nero girato in “super8” da un proiettore su un lenzuolo attaccato alla meglio su una parete. Quelli della mia generazione sanno di cosa parlo. Se non fosse per la mia propensione ad essere logorroico, vi racconterei di quella volta che ad una festa di comunione, giocando tra ragazzi, ho dato un pugno a mio cugino Francesco; evento ripreso da ben tre telecamere e finito di diritto nella storia famigliare.

Padri, Figli, fratelli. Da Isacco, il patriarca che porta il nome più importante della Torah, passando per la linea maschile attraverso Irv, poi Giacobbe fino ai fratelli Sam e Max. Isacco è sopravvissuto all’Olocausto la cui straziante storia è evocata da Foer all’inizio del libro. Jacob o Giacobbe, è un affermato autore di programmi TV un po’ frustrato per non aver replicato un romanzo di successo e con una sceneggiatura per serie TV ferma chissà da quanto nel cassetto. Sua moglie Julia, madre di Sam, Max, e Benjy è un architetto e il disastro del loro matrimonio è una delle catastrofi che tiene banco per tutto il libro.

L’altra catastrofe è la distruzione di Israele; un evento prefigurato nella prima frase del romanzo che arriva circa 250 pagine dopo sotto forma di un terremoto che colpisce il Medio Oriente innescando una serie di reazioni a catena che portano all’invasione dello Stato e una guerra.

L’incommensurabilità di questi disastri è l’ossatura, il plot del romanzo, come dice chi scrive di mestiere,  e con questo intendo anche sia la sua principale preoccupazione che la sua difficoltà maggiore.  Eccomi chiede a ognuno dei suoi personaggi come fare per essere due persone in una. Una legata alla propria personale esistenza, l’altra alla storia collettiva di un popolo apolide o quasi tale. Come sentire l’appartenenza a un luogo senza averlo mai visto e vissuto; come prendere parte a un’impetuosa vicenda secolare e trovare spazio in essa e allo stesso tempo occuparsi della piscina per i figli della propria abitazione?

Per Isaac, “non hanno scelto”, ama dire sbrigativamente, il che può essere presa anche come una dichiarazione d’integrità etica di fronte a circostanze impossibili. Ma che si trasforma drammaticamente come il sentimento impellente dell’unica cosa da fare per Tamir, cugino di secondo grado e amico d’infanzia (israeliana) di Jacob. Una volta che la distruzione inizia, Tamir, che è in visita a Washington per il Bar Mitzvah* di Sam, può solo pensare di tornare a casa a combattere. Jacob è invece martoriato dalla crisi e malessere coniugale e dal suo straniamento filiale. I suoi pensieri vanno verso l’incombente l’invecchiamento suo e della sua della famiglia e anche al… cane incontinente.

D’altro canto, la risposta di Irv al dilemma dell’esistenza ebraica-americana è quella di politicizzare tutto, per trasformare ogni conversazione privata in un’arringa su questioni di principio pubblico. Sam, un adolescente sensibile che, a suo modo ma come tutti, vive gran parte del tempo in una sorta di sdoppiamento di personalità. Il suo doppio è una femmina avatar di un gioco per computer che si  chiama… Samanta.. I suoi genitori sono ancora spaventati da un incidente domestico in cui la sua mano si ferì gravemente incastrata in una porta. Genitori che molti anni prima facevano del sesso stupefacente, mentre ora li osserviamo contorti nel loro buco nero coniugale ridotto a mandare sms erotici ad alcuni colleghi. Per dire che fine si fa quando si smette di crederci.

Infine. Eccomi è una scusa. Abramo si rivolge a Dio: Eccomi, dice, sono pronto (a sacrificare suo figlio); ma anche: sono qui, sono a casa della mia fede. O anche: sono a casa con la mia fede. Tradimenti veri o presunti, frustrazioni professionali, le ribellioni adolescenziali e le domande esistenziali dei figli, i pensieri suicidi del nonno, la malattia del cane: tutto per Jacob e Julia, che stanno vivendo la loro intensa crisi coniugale. Per non parlare di quello che accade in Israele.  Di fronte a questo scenario, tutti sono costretti a confrontarsi e interrogarsi sul significato della parola casa. – dal libro: “Come possiamo, nel mondo attuale, assolvere ai nostri doveri a volte contrastanti di padri, di mariti, di figli, di mogli, di madri? In che modo possiamo difendere la nostra identità personale quando la nostra vita è così strettamente legata a quella degli altri?”

Qualunque sia il posto cui i Bloch appartengano, confortevole o no, affrontano come tutti gli ebrei americani, il conflitto di appartenenza: ebreo o americano? Israele non è esattamente un argomento tabù per molti romanzieri ebrei americani, ma certamente non è molto popolare tra i romanzieri ebrei americani.  L’arrivo di Trump risolverà ogni dubbio a proposito.

 

Per BookAvenue, Michele Genchi

* ndr. la festa in cui un bambino ebreo raggiunge l’età della maturità: 13 anni e un giorno per i maschi, 12 anni e un giorno per le femmine) e diventa responsabile per se stesso nei confronti della Halakhah, la legge ebraica)

Fonti:

Here I Am by Jonathan Safran Foer review, Financial Times
Here I Am by Jonathan Safran Foer review – self-expression in the Jewish diaspora, The Guardian
Here I Am, Jonathan Safran Foer’s Tale of a Fracturing Family, The NY Times
Il nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer, Il post
Apocalisse Safran Foer, l’Espresso
Safran Foer: “Che banalità essere felici”, Repubblica

 

Eccomi
Traduttore: I. A. Piccinini
Editore: Guanda
Collana: Narratori della Fenice
Anno edizione: 2016
Pagine: 666 p. , Rilegato
EAN: 9788823504882

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1 commento

  1. Altrochè! L’arrivo di Trump farà scoppiare un’altro guaio in medio oriente, per l’endorsement a Israele devi solo aspettare qualche giorno: arriverà senz’altro azzerando tutti gli sforzi di Obama di costringere il governo di Tel Aviv alle proprie responsabilità. Risolverà la questione, vedrai. Ebrei “e” americani.
    :)ff

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