E’ bravissimo, certo, è un virtuosista della parola. Ma nell’ultimo romanzo la tira in lungo per 400 pagine attorno a una sola questione: la protagonista femminile gliela darà o no al protagonista maschile?
Non ho alcun dubbio sul fatto che lo scrittore inglese Martin Amis (classe 1949, figlio di Kingsley) possegga un grande talento letterario. Tuttavia mi sembra un talento così egolatrico, così machistico e capzioso, da risultare perfino irritante, oltre che magari un po’ sprecato.
Prendete il suo ultimo, cospicuo romanzo, “La vedova incinta” (traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, pp. 430, e 22). Siamo in Italia, in un castello in campagna, dove un gruppo di ragazzi inglesi upper class si annoia e si crogiola in corteggiamenti incrociati, nel corso di una vacanza estiva, nel fatidico 1970. Amis sfodera citazioni, preziosismi & virtuosismi; è capace di autentiche acrobazie e funambolismi verbali; gioca con i propri personaggi (soprattutto, col protagonista, l’esitante Keith e la di lui fidanzata, Lily) come il gatto col topo; scomoda la Storia con la esse maiuscola; riflette sul rapporto gioventù/vecchiaia; ironizza sul carattere italico e su quello british. Eppure, tutta la vicenda potrebbe riassumersi nel seguente quesito: Scheherazade (incredibile, ma una ragazza, nel libro, si chiama proprio così) gliela darà o non gliela darà al nostro eroe che “avrebbe potuto essere un poeta”?
Quattrocentotrenta pagine di finissime divagazioni sul tema, benché sostenute (ripeto) da un talento non comune e da una scrittura che talvolta strappa l’applauso, sono decisamente troppe e alla fine quel che rimane di tutta questa storia sfacciatamente brillante quanto brillantemente inutile è perlopiù la capacità illusionistica dell’autore di trasformare il niente in letteratura, e viceversa.