Il mondo perduto di Veza Canetti

Veza e Elias Canetti
   Tempo di lettura: 13 minuti

Chi è stata Veza Canetti.
L’ambiente, il contesto sociale, il clima politico nei quali Veza Canetti è nata e vissuta è fondamentale per la comprensione della sua formazione personale e intellettuale. Nasce a Vienna con il nome di Venetiana Taubner-Calderon il 21 novembre 1897. La madre è ebrea sefardita, il padre ha origini ungheresi.
La comunità ebraica di Vienna tra le due guerre è numerosa: consta di sessantamila persone. È una comunità emancipata e integrata pienamente nella cultura cittadina. È un centro laborioso e attivo con Sinagoghe, bar e locali. I suoi abitanti sono leali sudditi dell’Impero.
Dopo aver completato gli studi liceali, Veza Canetti lavora come insegnante di inglese. Ama la letteratura, è un’accanita lettrice, di bell’aspetto nonostante un handicap fisico al braccio sinistro.

Alla fine della Prima guerra mondiale, con la nascita della Repubblica e la comparsa dei nazionalismi, l’Austria è attraversata da diverse correnti ideali. Nel 1918, Vienna è governata dai socialdemocratici. La grande autrice risente moltissimo questo clima politico e culturale: è vicina agli ideali socialisti. Inizia a scrivere racconti negli anni Trenta per la rivista AZ di ispirazione socialdemocratica.
Negli anni Trenta il suo lavoro comincia a essere riconosciuto e pubblicato con alcuni pseudonimi ma, a partire da 1934, con il mutato clima in Austria, i suoi racconti non vengono più pubblicati. Nello stesso anno sposa Elias Canetti più giovane di lei di otto anni, conosciuto anni prima. A causa della deriva politica che scuote l’Europa intera degli anni Trenta e l’avanzare della politica nazista in patria, i coniugi si trasferiscono nel 1938 prima a Parigi e in seguito a Londra. Veza Canetti non vedrà pubblicato altro in vita e non farà più ritorno a Vienna.

L’attenzione alla tragica vita di Veza in relazione al difficile matrimonio e alla competizione artistica della coppia di scrittori è ovviamente interessante (soprattutto da una prospettiva femminista), ma a volte corre il rischio di oscurare l’opera reale, sebbene le somiglianze poetiche indichino un’ispirazione reciproca. Il timore del marito che l’immagine di uno scrittore fallito si radicasse nella posterità era del resto infondato.
Ingrato fino alla fine, Elias omise di menzionare il suo nome almeno nella prefazione di Massa e Potere, così come nella sua autobiografia stendeva il silenzio sulla attività letteraria di Veza. Le relazioni extraconiugali di Elias mettono a dura prova il già difficile matrimonio tra due intellettuali di quella levatura. Veza le accetta con la stessa tranquillità della vita separata: mentre lei vive a Londra, lui preferisce vivere con una delle sue amanti ad Amersham, a 40 km di distanza.
Veza morì il 1 maggio 1963 a Londra dopo una malattia che ufficialmente fu indicata come “embolia polmonare”. Molto si è speculato su un suo presunto suicidio che non ha trovato riscontro negli studi di questa grande scrittrice europea.

Il libro:
Sopravvivenza, esilio, la scrittura, dell’amore e della sua nemesi, costruiscono il “plot” che guida con toccante coinvolgimento la lettura di Autodafé di un amore di Gianfranco Longo e oggetto di quel che segue.
L’amore verso Elias Canetti, la devozione assoluta verso il loro rapporto coniugale è il filo rosso che mette insieme cronaca, storia e il doloroso rapporto umano e intellettuale tra i due scrittori. La nemesi dell’Europa vista dal riparo londinese, il capovolgimento della storia, gli orrori sono centro della riflessione di Veza mentre allo stesso tempo urla, quasi, la confessione d’amore verso il marito.

La scrittrice fa cronaca del suo tempo. Sono significative le storie famigliari di entrambi e che spiegano le ragioni del loro rifugiarsi nelle mani dell’altro.
Da una parte, il rapporto stretto e altrettanto difficilissimo di Elias con la madre che aveva negato il matrimonio del figlio con Veza più grande di lui e ragione, non ultima, dell’interruzione dei rapporti con la genitrice. È ancora bambino quando il padre, poco più che trentenne, è stroncato da un infarto.
Dall’altra, la convivenza di lei giovane con un patrigno vigliacco che insulta la sua deformità e la odia, altrettanto ricambiato da Veza che rimprovera i silenzi della madre prostituta, dice, del terzo patrigno in cambio del benessere assicurato.
I viaggi e gli incontri con i grandi scrittori europei dell’epoca hanno segnato significativamente la vita di Elias Canetti. Tra tutti, quella con Karl Krauss l’intellettuale che tanta influenza eserciterà sul futuro vincitore del premio Nobel. Mal sopportato da Veza, rimprovera il marito l’incapacità di liberarsi “dall’aggressività verbale e dal senso sardonico e parodistico, continuamente vituperato” e, ancora, “prigioniero della personalità …” dell’intellettuale.

Il libro offre alcuni passaggi assai emozionanti.

Leggo da “Conciliazione”, l’idea confessa di Veza di un romanzo dove dare “corpo e scopo alla sua trama”, rivelandosi una ricerca di conciliazione, “oserei dire ossessionante, perché la con pervicace ostilità nei tuoi confronti pretendevo” .
E ancora: “Fra noi, successivamente, la fragilità del reale ci condannò a esistere fugacemente, senza più osare la vita, avviluppati in successive trasformazioni, ottusamente abbarbicati a inseguirci per poi respingerci…”
Pagine che non nascondono la collera per l’assenza – non fisica ma intesa come fattiva, partecipativa – di Elias che si fa tragica quotidianità e che si traduce in dolore. Un amore, il loro, che ha molte ragioni d’essere nella storia di entrambi, che li ha coniugati e li ha portati a vivere a Londra per necessità di fuga. In effetti, qui è Veza stessa a lasciare una testimonianza delle vicende e dell’amore al quale è tanto devota, nonostante le sofferenze e tradimenti subiti dal marito.
Pagine che sono pure risposta agli accadimenti, che rinnovano promesse di ritrovare ragioni, di ritrovarsi, di perdonare. Una attesa interminabile di una vita possibile, con la scostante distanza che Elias pone fra sé e un’atteso gesto di apprezzamento che Veza sollecita del suo lavoro. Un annichilimento professionale, al contrario preteso da Elias per il suo, dalla moglie. Questa condizione di riduzione della personalità di Veza è terribile. Dopotutto, negli anni Venti a Vienna era una scrittrice ormai affermata e, benché autodidatta, conoscitrice della letteratura e che frequentava regolarmente i circoli letterari della città. Qui, il libro sollecita una riflessione sulla emancipazione e indipendenza di idee di Veza e di riflesso verso le donne di quel periodo e del nostro. Il dibattito sulla subordinazione femminile è una questione ancora aperta del nostro tempo. Le istanze di liberazione e uguaglianza, di affermazione di identità e indipendenza economica attraversano la storia e giungono a noi intatte.

Ho molte domande.
Una tra tutte: perché? Perché abdicarsi al lavoro del marito rinunciando quasi del tutto al suo talento? Perché, pur lavorando, immagino, nel poco tempo rimanente, tra depressione e crisi coniugale, non trovò un editore disposto ad accoglierla? Sollecita disappunto, pure rabbia, il pensiero che non fu aiutata proprio da chi avrebbe potuto. Un sostegno che avrebbe avuto potere taumaturgico sul delicato equilibrio psicologico di Veza. Elias Canetti, di contro, non impedì ma neanche sostenne la scrittura di Veza: nella sua autobiografia non vi fa cenno alcuno.
Elias insegue il suo traguardo letterario, meta, per usare le parole di Veza, quello di Massa e Potere, e Veza le sue. Del grande saggio, Veza fa menzione più e più volte. Destinazione di tutto, inteso come impegno cognitivo e partecipazione “fisica” di Elias Canetti allo studio e al componimento del saggio che lo vide impegnato per quarant’anni.

Nel lungo cahier de doléance c’è spazio per le “acque reflue”, per usare ancora una volta una espressione di Veza. La pulsione di Elias Canetti per le “altre” donne. C’è la presenza del fantasma di Anna Mahler, figlia del grande compositore Gustav– amato da entrambi – e Alma, quest’ultima descritta come di “terrifica freddezza” . Veza descrive con astio l’ascendenza della giovane scultrice nei confronti del marito quasi rimproverandolo dello “smacco” subito; di non aver portato a conclusione, insomma, il desiderio carnale di lei.
A proposito di questi ultimi personaggi (e non solo di questi): il libro stimola letture ulteriori. Un esercizio di conoscenza biografica: dare corpo alle parole; restituire immagini di volti a coloro che animano le pagine.

Quali parole usare per scrivere della fine della cultura europea di quegli anni tragici? Che cosa il nazismo bruciò oltre la barbarie inflitta agli ebrei? Il disfacimento nei forni crematori degli uomini fu preceduto dalla vana speranza dei molti che credettero che il nazismo non potesse essere così terribile. Prima che la ferocia si rivelasse. Prima che il popolo tedesco si trasformasse da sostenitore della liberazione dalla crisi politica che seguì dopo la fine del primo conflitto, a “volenteroso carnefice di Hitler” . La culla della cultura del mondo che seppe trasformare con il positivismo le credenze di un mondo antico in modernità, divenne il buco nero delle idee e precipizio dell’umanità.
Insieme, Veza e Elias assistettero al “capitolare del Ventesimo secolo”. Pure, “Vienna diventò la città che capitolò dinnanzi all’agghiacciante sovrano nazista”.

Le guerre si somigliano. Come non vedere la pretesa “riunificatrice” dei Sudeti nel ’38 per mano di Hitler con quella putiniana del Donbass di due anni fa?
Ancora. È possibile distinguere, la tragedia occorsa il secolo scorso con l’olocausto del popolo ebraico, con la disumanità altrettanto feroce quanto quella nazista dell’attuale governo israeliano nei confronti del popolo palestinese?

Veza Canetti attese invano un poema: versi che Elias le promise.
Nella seconda parte del libro la promessa è mantenuta. Alcuni versi richiamano le circostanze che animano il mondo sotto i loro occhi; altri, di riconciliazione e amore come gli ultimi versi da ε: “Ci raccogliemmo cauti nelle danze che avevamo osservate ai confini…”, davvero toccanti e che misurano la forza di Veza di saper perdonare. Pagine di enorme bellezza lirica.

Quale lezione si trae dalla lettura di questo libro? L’ho accennato prima: Gianfranco Longo dà voce e testimonianza, attraverso le parole di Veza Canetti, del rapporto di sudditanza della donna nel matrimonio, sul lavoro, nel quotidiano affaccendarsi delle cose. Così come l’ingiusto, iniquo anzi, sistema di relazioni tra i sessi che sono, secondo me, la pietra d’angolo del romanzo testimoniato più volte nelle pagine. Veza Canetti parla della sua epoca rivolgendosi alla nostra. Riflette sulla guerra; su quello che il conflitto ha rappresentato per la geografia dell’Europa, per la sua gente e sulla lezione consegnata alla storia.
Una lezione utile per il tempo presente confuso e bugiardo.
In questo senso, Autodafé di un amore, è un libro politico. Di politica della scrittura come destino di alcuni; parla di letteratura. Parla di arte.
Ma è un libro sull’amore. Soprattutto sulla capacità propria dell’amore di promuovere il perdono, della misericordia dentro un gesto solidale, di mettersi nell’altro. Di unire.
Darsi: ecco tutto.

per BookAvenue, Michele Genchi

nota.
Le opere di Veza Canetti in italiano:

La pazienza porta rose, Anabasi, ed. 1993, Non disponib.
Le tartarughe, Marsilio, ed. 2000,
La Strada gialla, Marsilio, ed. 2001,
Lettere a Georges, Elias e Veza Canetti, Archinto, ed. 2012 Non disponib.


Il libro:
Gianfranco Longo,
Veza Canetti. Autodafé di un amore
Il Poligrafo editore
ed.2022, pp.272


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3 commenti

  1. Caro Genchi,
    le sono davvero grata per questo articolo. Lei ha il raro dono di raccontare storie appassionanti e fare conoscere qualcosa di più di autori o storie letterarie, quando si pensa di sapere già molto.
    Gabriella N.

  2. Mamma mia, Michele. Bellissimo pezzo!
    ma sai che la conoscevo solo per i libri tradotti da Marsilio? Non ne sapevo un’accidente di niente. Certo che Elias C. è stato uno smargiassa! Le ha fatto fare una vitaccia a quella poveretta.
    un abbraccio.
    ps. Socccia!, ma vieni a BO a mangiare la tagliatella una volta?

    f.

    1. Già. Il premio Nobel dovrebbe essere ritirato per le pene che ha procurato a Veza.
      FAbrì, una volta vengo. Da Roma era più semplice e veloce: da Bari ci vogliono 6 ore, capisci a me…

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