Nel caso non mi riconoscessi

Capossele, Nel caso non mi riconoscessi. part. copertina
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Alda nasce a Ferrara nel 1923, sotto il segno di una scontentezza profonda che attraversa tutto il Novecento. Proviene da quei vicoli che a Ferrara odorano di una polvere antica, e da case dove il sole entra con difficoltà e non arriva mai a rischiarare le ombre. La luce gioca con le sorti della città come con la sua vita e, quando le bombe radono al suolo interi quartieri, nell’inverno tra il 1943 e il 1944, l’animo della ventenne Alda è colmo di disprezzo. È curiosità e paura insieme, la sua, come di una vita e un amore che – ancora e ancora – le passino sempre accanto, senza fermarsi mai alla sua porta.

Alda risponde con una controffensiva interiore. Diventa la signorina di città che incontra un capitano tedesco all’ombra dei fienili, ma la Storia vuole negarle anche Stephan perché, nel piccolo paese dove Alda è sfollata, arriva il 25 aprile. Un bambino di tre anni si arrampica sulla scala a pioli, scrive Francesca Capossele: la luce azzurra del giorno entra nell’ombra fresca di quel vecchio solaio e un volo frenetico di pipistrelli accoglie il piccolo visitatore, staccandosi dalle vecchie travi e dai fili per la biancheria, dondolanti nel vuoto. Il bambino cade all’indietro, un volo di dieci metri. Fine della guerra.

Pochi anni più tardi, Alda scriverà una frase su un foglio – Non cercatemi mai – e brucerà la sua carta d’identità nel bagno della stazione di Bologna. In gran segreto prenderà un treno di sola andata – direzione Germania Est – e noi partiremo irrimediabilmente con lei – sprezzante, fredda, disillusa, umanissima – e la seguiremo col fiato sospeso per indimenticabili 182 pagine. Ruberemo con lei l’amore e una famiglia nell’ombra della Stasi, accompagnandola fino all’istante della morte per vedere, attraverso di lei, il marchio della Storia nella nostra carne e in filigrana un irraggiungibile cuore – la casa dalle farfalle bianche – che è forse il varco d’anima della nostra infanzia, il negativo impressionato dalla luce e la nostra più profonda memoria.

Ma memoria di che cosa? Chi abita a Ferrara sa che la luce apre, in certi istanti e in certi luoghi, un contatto con l’Altrove. Persino la terra si fa più soffice là dove la grande mano dello scultore esce dalla terra per chiedere un altro po’ di tempo alla cupola della Certosa. Sarà questa luce la ragione della fuga di Alda dalla prigione di sé stessa e verso la prigione di sé stessa? Me lo sono chiesto, leggendo, ma non ho trovato una risposta. Forse non la si può dire, questa luce che abita il grande quadrato dei cimiteri, il Ghetto, il Parco Massari o quelle case d’infanzia, dove volano farfalle bianche e giace il segreto della nonna Armonia.

Non so se una luce possa determinare una vita, ma certo c’è un dialogo, in questo romanzo, tra Ferrara e la grande luce del Nord, che cola tra gli alberi come una cascata bianca. Francesca Capossele mi ha detto che Nel caso non mi riconoscessi è un’opera imbevuta di Novecento e che probabilmente è questo mio sentire la Storia tra le pagine a farmi innamorare. Non lo so. È piuttosto la sua scrittura a incantarmi, per la sua postura scomodissima e inaspettata. Capossele disegna un personaggio femminile non empatico con il quale, dolorosamente, empatizziamo.

Il Romanzo

entra senza allusioni nella stanza umana della

violenza

Il romanzo entra senza allusioni nella stanza umana della violenza e del sadismo essenziale, e li declina in pochi tratti, tanto nel privato quanto nella politica. Sa racchiudere tutta una vita umana e tutta la Storia intorno nell’attimo di una morte qualunque, in pagine di vertiginosa prosa poetica. Si avvicina all’animo umano fino a mostrarci ferite aperte, ma ci permette soltanto di spiare, come bambini, l’ombra fresca della casa delle farfalle bianche. Lì, la sua mano ci frena sull’uscio.

Ho amato molto che Alda non abbia un motivo socialmente accettabile per il suo fuggire dal vivere e dal morire: questo ci consente, narrativamente, di spaziare con lo sguardo. Non c’è una mancanza dei genitori contro cui possiamo puntare il dito per tornarcene a casa soddisfatti, né troveremo in lei un vero rimpianto. Le ragioni dei suoi gesti sono lì, sufficienti, ma ci restano in fondo ineffabili. Sono forse racchiuse nella casa delle farfalle bianche, là dove vivere è solo riscrivere la luce della giovinezza.

Mi chiedevo, leggendo, se questa luce metafisica non conosca davvero il mistero dello scollamento di Alda dal cuore pulsante della vita, del suo disprezzo latente, del suo folle viaggio al contrario, del suo non saper raggiungere l’amore se non sulla soglia nordica dei suoi ultimi attimi di vita. Se non sia, insomma, il ricordo antichissimo di quella luce, il profondo inganno che ci avvinghia al sogno.

Alda è un personaggio prismatico, per certi versi mediocre e grande assieme, ma non passa mai per una rivendicazione vera e propria, né cerca una definizione di sé. Semplicemente, fugge. E cerca. Cammina sulla partitura del suo destino, e ci restituisce in trasparenza la sensazione struggente di essere qui per poco, in cerca di noi stessi nel passato o forse nell’Altrove, tra il male e il bene della Storia: tutto è più grande di noi, ma al contempo presente in noi, di qua e di là da ogni muro interiore. Quando Alda se ne va, noi restiamo immobili ad ascoltare un segreto che ci riguarda: la luce e l’ombra della casa delle farfalle bianche che continua a custodire noi stessi, sul confine tra la Storia e l’anima.

Per BookAvenue, Silvia Belcastro


Il libro:

Francesca Capossele,
Nel caso non mi riconoscessi,
Fandango Playground,
ed. 2019 pp. 182


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