E’ inizio estate e i quotidiani mi consegnano immagini scioccanti. Da un lato vedo l’orrore iracheno e l’avanzata di un’ideologia politica e religiosa estrema, dall’altro la cronaca nostrana di un irreprensibile marito-figlio modello che stermina moglie e bambini per recuperare una fantomatica libertà. Mister Hyde è tra noi e fortunatamente è in questi giorni che sto rileggendo Giro di vite di Henry James.
L’ho letto per la prima volta nel giugno 2003, a Venezia. Ricordo le circostanze: ero sprofondata in una poltrona accanto a una finestra che dava sui Frari e non riuscivo a staccare gli occhi dalla pagina nonostante il caldo opprimente. Undici anni dopo lo riprendo in mano – un’altra volta all’inizio dell’estate – e si fa strada in me la speranza di provare ancora quell’emozione che mi ha portato a scrivere una miriade di minuscole note a margine.
Probabilmente, su Giro di vite è già stato scritto tutto e io vi consiglierò soltanto di leggerlo se non l’avete già fatto. Facendo una breve ricerca su Google potete anche trovare le indicazioni per orientarvi nella storia della critica. Sin dalla sua pubblicazione nel 1898 infatti, questo racconto ha suscitato un’infinità di studi critici e ipotesi interpretative. Scrive l’Indipendent il 5 gennaio del 1899: “Giro di vite è la storia più disperatamente malvagia che sia mai stata letta in qualunque letteratura, antica e moderna”. Lo è davvero? Per la sua essenziale universalità, forse sì.
La trama segue la tradizione del perturbante e del romanzo gotico. E’ incastonata in una brevissima cornice narrativa, che funge da espediente per insinuare il dubbio su ciò che si dirà in seguito e somiglia un po’ al nostro Decamerone: alcuni amici si riuniscono in una vecchia casa di campagna per raccontarsi storie di paura. L’ignoto narratore è il nostro testimone oculare. L’antefatto è che si narrano storie di cui non sappiamo nulla finché noi apriamo il libro e un uomo – l’affascinante Douglas – prende la parola. “Conosco una storia che è ancora più terribile della precedente”, dice gettando distrattamente un legnetto nel camino. “Raccontaci, raccontaci!”, gridano tutti i presenti. Douglas li zittisce: la storia che ha da raccontare è contenuta in un manoscritto che una donna gli ha lasciato vent’anni prima, ma il manoscritto è sotto chiave e ci vorranno alcuni giorni per recuperarlo. Sentite già una voce sinistramente fiabesca che vi dice: “C’era una volta un uomo che ascoltò un uomo che raccontava una storia, che raccontava di una donna che narrava un’altra storia…”, finché la storia comincia davvero e l’osservatore ci narra di Douglas che comincia a leggere il manoscritto. E il manoscritto – la nostra storia – è redatto in prima persona da una donna.
Una giovane istitutrice di vent’anni – inesperta, figlia di un reverendo di campagna – risponde a un’offerta di lavoro a Londra. Un uomo d’affari sta cercando qualcuno che si occupi dei suoi due nipotini nella grande tenuta di campagna di Bly. Gli orfani sono stati affidati allo zio, che però non ha tempo per occuparsene. Il lavoro è ben pagato ma c’è una condizione: l’istitutrice si accollerà ogni responsabilità dall’educazione dei bambini alle questioni economiche, ma il padrone non dovrà mai essere disturbato. MAI, per nessun motivo.
Dunque la vicenda si apre con una solitudine. La ragazza è affascinata da questo scapolo bello e importante che non può contattare. Segretamente forse sogna di conquistarlo, dunque accetta il lavoro e si trasferisce a Bly. La accolgono una dimora magnifica immersa in un’estate languida e insolente, e Flora, una bambina di otto anni di una bellezza angelica. Pochi giorni dopo il piccolo Miles, di due anni più grande della sorella, torna a casa per la fine dell’anno scolastico. E’ allegro, intelligente, bellissimo… ma nasconde un segreto. L’istitutrice riceve infatti una lettera in cui il preside della scuola informa la famiglia che Miles è stato espulso. La ragazza ne viene profondamente turbata. Il bambino – sulla soglia della pubertà – è malvagio? Cosa ha fatto per essere espulso?
Il dubbio si insinua e l’estate avanza verso il suo pulsante cuore di tenebra. Cominciano ad accadere strane cose a Bly: la ragazza vede un misterioso uomo sulla torre, poi lo stesso uomo le appare incorniciato in una finestra, infine vede anche una donna dall’aspetto terribile. Le apparizioni si susseguono una dopo l’altra gettandola nella disperazione. Chi sono? Le due figure la guardano con occhi malvagi finché la donna si confida con la fedele Mrs Grose, un’inserviente che riconosce nelle fattezze dell’uomo (bellissimo, eretto, rosso di capelli… ) quelle di Peter Quint, un servitore morto tempo prima. La seconda figura dunque non può che essere Miss Jessel, l’istitutrice precedente e sua illecita amante.
La ragazza dunque non ha dubbi, gli spettri dei due scellerati esempi di libertà (o di depravazione, se preferite) vogliono corrompere i bambini. Sono tornati per “possederli e corromperli”, qualunque cosa questo significhi. Si dice poi che Quint passasse molto tempo con Miles e qualcuno sostiene che questa compagnia non ci addicesse a un signorino. Le congetture non dette e l’esaltazione raggiungono l’apice quando l’istitutrice decide di proteggere i bambini, di frapporsi fra loro e gli spettri affrontando il male direttamente. Ma su questo campo di battaglia – reale o inventato – si consumerà una tragedia. Henry James non dirà che pochissime parole al riguardo, riportando di colpo il silenzio nella mente caotica dell’istitutrice e nella grande tenuta di Bly.
E’ dunque ovvio che in Giro di Vite quello che conta non è la storia, ma il non detto. Nel 1934, il famoso saggio di Edmund Wilson L’ambiguità di Henry James propose per la prima volta una suggestiva interpretazione freudiana che minava la credibilità dell’istitutrice. Si scatenarono reazioni furenti: come osare mettere in dubbio le parole di una ragazza che incarnava i valori dell’epoca? Secondo questo filone infatti, gli spettri non sono reali ma proiezioni dei desideri repressi. Desideri che forse sono scatenati dal languore estivo e dall’isolamento della tenuta, da una libertà di cui l’istitutrice “fa esperienza per la prima volta”. Desideri che sono diretti in prima istanza al padrone e in secondo luogo al giovane Miles, a cui pensiamo immediatamente quando ci ricordiamo che a raccontarci la storia è Douglas. Già, perché anche voi vi eravate dimenticati di Douglas, eppure è inevitabile chiedersi come ha conosciuto l’istitutrice, “molti anni prima”.
Quello che è certo è che Henry James ha saputo costruire sulle omissioni di significato – l’ambiguità citata da Wilson – una critica a tutto tondo dell’edificio vittoriano. La tendenza dell’istitutrice alla rimozione e alla proiezione ci porta inevitabilmente a riempire i vuoti con riferimenti alla sessualità. Il meccanismo finisce così per smascherare la pruderie vittoriana ma soprattutto per evidenziare come l’incorruttibilità e l’ipocrisia della società fossero in realtà la più grande perversione.
Ho visto diversi adattamenti televisivi di Giro di vite, ma a mio parere la potenza dell’opera scritta resta insuperata. Henry James ha infatti volutamente rappresentato l’atto stesso del parlare e dello scrivere. E’ attraverso il linguaggio – la razionalizzazione – che il sistema di rimozione si perpetua a livello sociale e privato. Ed è dunque in questa descrizione della macchina-pensiero che scopriamo gli scarti tra realtà e fantasia. Henry James va quindi letto perché qualunque film non ci metterà a disagio e non ci farà sbattere il naso contro quel meccanismo innato all’essere umano per cui scegliamo sempre – di volta in volta – a quale pregiudizio credere. E’ contro quella scelta che James punta il dito. La scelta c’è sempre, dice lo scrittore, non fingete che non sia così. Scegliete di credere o non credere a un fantasma, di credere o non credere che sia malvagio, di credere o non credere di essere nel giusto. Sempre. E dunque ogni morale rischia in qualche modo di diventare totalitaria.
La biografia personale di Henry James ci illumina poi con un altro importante sottotesto. Già Oscar Wilde aveva descritto l’omosessualità come “l’amore che non osa pronunciare il suo nome”, ma attraverso i suoi silenzi Henry James ci suggestiona al punto che è impossibile non interpretare la tragedia che tronca la storia come il soffocamento dell’intellettuale (e dell’omosessuale) all’interno della società vittoriana.
Certo è che potenzialmente siamo tutti Miles e Flora, vittime innocenti o colpevoli a seconda degli occhi di chi guarda. E siamo anche Peter Quint e Miss Jessel, depravati o semplicemente liberi a seconda della nostra interpretazione. E siamo tutti anche l’istitutrice puritana, che assurge a rappresentare la società ipocrita e totalitaria che noi stessi – ogni giorno – costruiamo.
Per BookAvenue, Silvia Belcastro
[…] giocando con noi come il gatto col topo (o forse come Henry James in Giro di Vite? Ve ne ho parlato[U4] … ). Insomma, ormai ne ero certa: la signora nel cardigan grigio era dichiaratamente […]