Beirut scorre riflessa sulla carrozzeria delle auto in corsa. Scorre frenetica e vitale. Scorre come l’acqua dei pozzi e delle sorgenti a cui si dice debba il nome. Berut. Scorre come dolce latte Laban nel bagliore indimenticabile delle montagne del Libano. Scorre e si infila nel traffico di ogni ora tra neon e lapidi memoriali, nei centri commerciali, nei fori di mitraglia, nelle case poco a poco riempite, desolazione e sfarzo, macerie. Chador colorati e statue di devozione mariana marcano i confini delle confessioni tra i palazzi, sui balconi, nei giardini, nelle nicchie tra un viadotto e i resti di un check-in, interessi e disinteresse, montagne orti e campi profughi. Palazzi lasciati a metà e poco distante locali trendy da ricca capitale dove la notte non finisce mai. Strade dello shopping impero occidente e poco distante le svolte dove non finiscono mai le preghiere.
Beirut non è una città che resta indifferente al tuo arrivo. Ti accoglie di prepotenza. Ha voglia di riscatto. Ti squadra e poi ti salta al collo con la gioia di un bambino orgoglioso e ti dice guardami! Guardami! Si infila rapida nei finestrini aperti della auto calde di luce mediterranea, scivola sugli sguardi che la gente si dà superando a destra, a sinistra. Rimbalza su sportelli arrugginiti e cofani ammaccati, su furgoni assemblati con pezzi di auto diverse. Su auto civili e fuoristrada militari. Su piccoli pullmini che non hanno tempo da perdere e sfrecciano come scooter. Si specchia su cofani e sportelli lucidi di nuovi modelli fiammanti Beirut. Cabrio, optional, sedili superlusso. Sobbalza d’aria condizionata e cambi automatici. Rotola tra camicie azzurre di professionisti al lavoro e buste di negozi e confezioni, T-shirt, scarpe italiane di costose marche da esportazione, sandali aperti, sensuali ombelichi scoperti, tacchi alti, bretelline, occhiali da sole e veli griffati. Suona il clacson a ogni accelerata a ogni frenata. Suona sempre il clacson, Beirut. Con una smania di vita, una sete mai placata. Abbagliante di scritte e pubblicità, di maestosi cedri e tornanti in quota, di esperimenti architettonici d’avanguardia e palazzi plasmati dalle guerre, caffetterie, ristoranti, banche e banchi ambulanti con tutto il bendiddio: mandorle, datteri, kebab, falafel, ebbe, pistacchi, hotdog, angurie, meloni, pesce fresco, verdure animali umani e vecchi televisori. È il mondo che chiama a bordo strada.
Beirut metropoli e paese. Beirut disordinata e sonora. Beirut esuberante, contraddittoria, sempre calda e sensuale, spietata e sofferente come ogni città piena di storia che per farsi ammirare, bella com’è, s’affaccia alla grande agorà salata del Mediterraneo. Ammira la tua Beirut, che ce n’è più d’una. Ascolta le sue storie a ritmo di darbuka, la sua dabkha di popolo tenace, ballata d’amore e orgoglio alla terra e alle variabili armonie.
Nell’estate del 2006, Sofia abbandona il lavoro e l’Italia per seguire Antoine a Beirut, facendogli una sorpresa con il suo arrivo non annunciato. Antoine è libanese, di professione fotografo. Sofia lo conosce ad una festa in Italia, presso comuni amici, e comprende di esserne innamorata. Crede anche di essere ricambiata ma l’atteggiamento dell’uomo, al suo arrivo improvviso a Beirut, è scostante e poco socievole. Improvvisamente scoppia il conflitto tra Hizbollah e Israele e Sonia si trova di fronte ad una scelta: fuggire, sfruttando l’opportunità offertale dall’ambasciata italiana, oppure restare, per conoscere meglio le persone che la stanno ospitando e gli usi di quel posto magico, pieno di riti e di profumi indimenticabili.
Opterà per la prima opportunità, dovendo anche pensare all’incolumità dei suoi nuovi amici, e tornerà in Italia. Con il cuore gonfio di dolore, soprattutto perché dovrà abbandonare Khalil, il nipote di Antoine, che si è affezionato moltissimo a lei. Un bambino di soli nove anni, molto intelligente e colto e con occhi di cerbiatto.
Sarà il più grande rimpianto, per Sofia, il fatto di dover abbandonare Khalil. Per ritornare in Italia senza possedere più alcuna certezza. Conoscerà altre storie umane, altre vite, costrette a scappare da una terra che sembrava il paradiso. Ma che, ormai, è solo una delle tante succursali dell’inferno.
Ho letto questo libro d’un fiato. Il Libano è una di quelle terre di cui si sente tanto parlare nelle cronache di guerra. La descrizione che ne viene data, in questo libro, induce a pensare che fosse una perla, prima del conflitto. E ci fa soffermare su quella che è la guerra, vista da una diversa prospettiva. Quella di chi vive un’esistenza “accomodata”.