Intervista a Edna O’Brian

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   Tempo di lettura: 9 minuti

foto autoreIn occasione del rilascio del 4°numero della rivista (on line i primi di settembre), dedicata alla letteratura irlandese, abbiamo avuto l’opportunità e il privilegio di contattare Edna O’Brian per porle qualche domanda. Potete leggerla di seguito oppure scaricarla nel pdf allegato.
Nel prossimo numero della rivista, che prende il suo nome dal nostro sito, troverete alcune recensioni di autori del paese verde, articoli, e un sacco di altre belle cose. Rimanete on line con noi!

Con più di venti libri, Edna O’Brien ha tracciato il paesaggio emotivo e psichico della sua nativa Irlanda. Spesso criticata nel suo paese per il suo atteggiamento schietto, ha forgiato un pubblico universale; da moltissime comunità culturali è descritta come ‘una degna erede degli antenati della letteratura irlandese’, mentre Le Figaro ha osservato che’ il respiro del suo linguaggio è paragonabile a Faulkner’. Riconoscimenti e premi sono stati: gli irlandesi PEN Lifetime Achievement Award, Writers Guild ‘di Gran Bretagna, Premio Cavour (italiano), American National Arte, Medaglia d’Oro e Medaglia d’Ulisse 2006. Vive, per scelta di autoesilio letterario, a Londra.

BA. Lei proviene da un paese che molti scrittori sembrano lasciare. E ‘meglio o più facile scrivere sull’ Irlanda da fuori?

EOB. Il mio primo libro, “The Country Girls”, è stata una storia semplice: quella di due ragazze che stavano cercando di scappare con i loro abiti (tute) dalla palestra del loro convento, ma anche dalla loro vita e dalle proprie case, per correre nella grande città. Ha fatto arrabbiare un sacco di gente, compresa la mia famiglia. E’ stato bandito e chiamato come “una macchia sull’identità della donna irlandese”. Un sacerdote della nostra parrocchia, chiese dall’altare se qualcuno avesse potuto comprare delle copie e portarle nella cappella. Quella sera ci fu un piccolo ardente fuoco. Mia madre svenne, e io le ho detto che forse era per il fumo.
Quando ho scritto il mio secondo libro (“The Lonely Girls”), il parere è stato che il primo, era un libro di preghiere a confronto. Mia madre prese il libro e sottolineò tutte le parole incriminate. Così fece per farmi prendere atto della vergogna, per farmi sentire che avevo fatto qualcosa di sbagliato. E ‘già abbastanza difficile scrivere un libro: devi scavare e scavare e scavare nel tuo inconscio, trovare qualche tipo di storia, il linguaggio, l’emozione, la musica. E ti piacerebbe avere una piccola quantità di sostegno da qualcuno che conosci. Quindi, se avete qualche grado di parentela pronta a “proteggervi” verso tutto, andate via da quel posto, se avete intenzione di continuare a scrivere.

James Joyce ha vissuto tutta la sua vita lontano e ha scritto ossessivamente e gloriosamente sull’ Irlanda. Anche se aveva lasciato l’Irlanda con il corpo, non l’aveva lasciata psichicamente, non più di quello che ho fatto io. Io non escludo che vivrei per qualche tempo in Irlanda, ma solo in un luogo remoto, dove avrei silenzio e privacy. E ‘importante quando si scrive di sentirsi liberi, di non risponde a nessuno. Nel momento in cui ti senti rispondere, sei strozzato. Non si può fare.

BA. Lei scrive molto di guerra – la guerra in casa, la guerra nella terra, la guerra nel cuore. Pensa che gli irlandesi sono inclini a questo particolare passatempo?

EOB. Ritengo, anzi, che sono più turbolenti. Sono più turbolenti per una certa pre-disposizione e per la lingua. E la loro storia li ha fatto soffrire un inferno. Ho scritto circa il conflitto tra madre e figlio, tra marito e moglie, e, in “House of splendid isolation (Uno splendido isolamento, tr. Feltrinelli UE), tra due parti di uno stesso paese. Un uomo dell’IRA mi disse una volta: “Quando fui colpito (a fuoco), non m’ importava. Ma quando gli ho sparato si, perché la metà di voi spera che lui si salvi, l’altra metà che non abbia speranze. Perché abbiamo l’ Irlanda sotto la pelle. ” Questa per me è stata una storia di guerra.

La guerra, sia che si tratti tra l’uomo e la donna, o di parti diverse di un paese, o diverse nazioni, è sempre, sempre molto complicata. E’ quello che voglio scrivere. E’ il dilemma e il conflitto all’interno che conta. Sarebbe impossibile per uno scrittore con una consapevolezza circa la psiche umana e la condizione umana di non scrivere di guerre qualsiasi esse sìano: sentimentale, locale o più in larga scala. Poiché capita che le persone siano in disaccordo tra loro, a volte si perdonano reciprocamente, ma poi torna il re-disaccordo tra di loro. La vita non è una piscina piatta, è una tempesta, un mare in tempesta dove siamo tutti dentro. E forse io, in fuga da dove sono, devo prestare più attenzione a questo tema che agli aspetti più dolci. Ma, in fondo, questo è il mio destino.

BA. E’ questo lo scopo, o il messaggio della sua scrittura?

EOB. Io non sono sicura di avere un messaggio – Edvard Munch con “L’urlo”, forse. Lo scopo? E’ una domanda molto difficile a cui rispondere. In primo luogo per me è il linguaggio. Una delle mie più grandi emozioni nella vita è di sentire un suono di lingua, una lingua di una poesia, come Wallace Stevens della quale non so quale preferisco di più: / la bellezza dell’inflessione, la bellezza delle insinuazioni, o il fischio di un merlo». Non posso dire se lo “scopo” di Wallace Stevens, sia una di queste tre grandi questioni. Tutto quello che so è che, quando le ho sentite, mi hanno turbata.
La lingua è una cosa straordinaria. E’ più straordinaria di qualsiasi arma nucleare. Potete fare qualsiasi cosa con essa. James Joyce lo ha fatto. Si può girare dentro e fuori. È possibile torcersi con la parola, è possibile fare una galassia con essa e portare l’emozione e l’eccitazione di lettore all’estasi. Amo pensare anche la vaga possibilità che io possa essere impegnata in questa vocazione.

BA. Quali autori le affrettano il passo, chi la influenza di più?

EOB. Deve essere James Joyce. Non è fuori dai sentimenti nazionali che dico una cosa simile. E’ che semplicemente quando lavoravo a Dublino in una farmacia, uno giorno ho comprato un libro per quattro soldi che si chiamava “Introducing James Joyce”, di TS Eliot, e l’ho aperto nella sezione del “Ritratto dell’artista da giovane”, la scena della cena di Natale, con la fiamma blu sopra il pudding di Natale. Fino ad allora, avevo scritto piuttosto fantasiosamente, con un sacco di aggettivi. Quando ho letto questo, ho capito una cosa: che avevo bisogno di non andare oltre la mia interiorità, la mia esperienza, per tutto quello che volevo scrivere. E’ stato veramente, senza sembrare St Paul, una rivelazione assoluta per me.

L’altro è William Faulkner. Se ci sono due uomini in cielo, come mi auguro che ci sia – anche se Joyce non vorrebbe che io dia a questo una menzione di luogo – se sono lì insieme, spero che stiano a bevendo e brindando alla loro grandezza e di quanto hanno dato. E’ enorme quello che hanno dato alla vita. Ci sono scrittori e scrittori. Ma ci sono Joyce e Faulkner, per me.

Gli ultimi lavori dell’autrice
Byron in love 2010
Haunted 2010
di prossima uscita nel 2011 Saints and Sinners

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l’intervista sarà pubblicata su BookAvenue, la rivista di libri e culture letterarie
in uscita i primi di settembre su Issuu

scarica e leggi l’intervista

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