Certi libri arrivano al lettore come in risposta a una preghiera. La preghiera può essere un giorno di sole o il momento più basso di un’esistenza, ma è sempre l’arte a esprimere il nostro indicibile. Succede anche per le preghiere di una società. “Ogni epoca concentra l’attenzione su alcune parole, ne è come ossessionata. Questo perché quest’epoca sta perdendo la cosa nominata e comincia ad avvertirne la mancanza”.
Se c’è una cosa che manca all’uomo in questo tempo di declino umano e spirituale, è la Poesia: quella bellezza che l’universo ha facoltà di osservare in se stesso tramite la vita. A questa preghiera dà risposta il libro-miracolo di Alessandro D’Avenia, ponendoci al cospetto di un poeta che forse non abbiamo saputo vedere: Giacomo Leopardi.
Ho iniziato a leggere L’arte di essere fragili a Roma, in una tavola calda. La ferita che ha curato in me era molto grande, per cui sin dalla prima pagina ho sentito quella commozione che segna il vibrare di corde profonde. Il proprietario del locale, un ometto coi baffi, si è seduto accanto a me in un’intimità naturale in cui i romani sono maestri. “Bellissimo, non trova?”, mi ha chiesto. “In verità l’ho appena cominciato…”. “Sa, ho letto anche gli altri, ma questo è il migliore. Lo legga signorina, MI RACCOMANDO.” L’ometto ha poi dato una pacca di incoraggiamento sulla copertina del mio libro come se fosse uno dei suoi animali e che si fosse attardato fuori dal recinto. Poi si è alzato, è tornato al bancone e si è messo ad asciugare i bicchieri. Inaspettatamente ha alzato lo sguardo verso di me e ha sibilato: “Lo legga! Lo legga!”. “Va bene”, l’ho rassicurato. I si riconoscono nelle folle del mondo e il barista romano aveva ragione: “leggetelo” è l’unica recensione che avrebbe senso fare, a meno che non si accetti che all’argomento di questo libro dedicheremo una vita intera. Noi di Bookavenue abbiamo però il compito di tentare di raccontarvi libri e di dare parole all’indicibile, per cui mi tocca scrivere qualcosa che sarà sicuramente troppo e troppo poco.
Forse sapete che Giacomo Leopardi aveva in mente di scrivere una Lettera a un giovane del ventesimo secolo, come accenna nello Zibaldone nell’aprile del 1827, ma non fece in tempo. “Mi piace immaginare che a ricevere quella lettera sia stato proprio io”, scrive Alessandro D’Avenia, professore di lettere che tutti avremmo voluto avere. Il ragazzino di diciassette anni che scoprì Giacomo Leopardi fece suo il proposito di scrivere, vent’anni dopo, una risposta al Poeta. Ne è nato un libro e una serie di lettere scritte da tutti noi. Lettere che attraversano il buio dei secoli e mettono a nudo il ruolo della letteratura, mistificato oggi dalla società dei consumi: restituire agli uomini il senso della vita. Le lettere sono scritte in un italiano semplice e al tempo stesso purissimo, e toccano temi che ci coinvolgono tutti dalla nascita alla morte. Sono lettere sulle cose che contano e per questo sono rivolte soprattutto ai giovani e a chi conserva la scintilla – oggi debole e piegata dai venti – di un’etica.
D’Avenia ci regala un implicito manifesto politico, sociale, ideologico e spirituale. Il futuro dell’uomo è appeso al filo della nostra capacità di riappropriarci della poesia e “dell’arte di vivere” in ogni sua forma. Come scrive il poeta Franco Arminio nel celebre pezzo: Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, di gente che sa fare il pane[i]. Di questo ci parla D’Avenia tramite i versi di Leopardi.
Oggigiorno ci si chiede, per esempio, perché gli adolescenti debbano studiare letteratura. La tecnologia e il consumismo ci hanno talmente assopito da farci credere che l’umanità – intesa come specie e come valore – possa avere un futuro rinunciando alla propria anima. Tra le famose cose da salvare in caso di incendio e quelle da portarsi sull’isola deserta, forse nessuno risponde più come rispondeva da bambino: l’amore, la famiglia, il migliore amico, la pizza e un buon libro. Forse oggi qualcuno si porta via più volentieri lo smartphone e il tablet. Eppure, la letteratura è imprescindibile quanto il pane, poiché è il canto dell’uomo nella notte e insegna alle giovani generazioni “l’arte di vivere”. Quest’arte di “essere poeti del quotidiano” conta più di ogni altra e si basa su una verità che il “progresso” ci ha strappato di dosso: siamo umani e dobbiamo imparare “l’arte di essere fragili”.
È un tema violento come una carezza in un’epoca in cui a volte gli adolescenti non sanno più cosa sia una carezza. Negli anni dell’informazione ricevuta, dell’assenza di pensiero argomentativo, della comunicazione che scivola sulla superficie di Whatsapp per cadere nel vuoto della dis-connessione, nell’epoca dell’attenzione che dura il tempo di un’immagine (l’attenzione non è l’unica forma di amore?), non c’è spazio per la lentezza del seme che muore per farsi pianta e frutto. Ciò che stiamo dimenticando, dice D’Avenia, è “l’arte di essere felici”. Stiamo perdendo l’arte di “essere vulnerabili”, per citare una famosa psicologa che a questo tema ha dedicato un TED-Talk che vi invito a guardare[ii]. Lasciarsi ferire dalla vita, spiega il professore a grandi e piccini, è l’unica cura contro la non-vita imposta dalla società. La ragione è lapalissiana: il narcisismo della società dei consumi è il dannoso oggetto che riceviamo in cambio della felicità dell’anima.
Vi riassumo brevemente la struttura del libro. È diviso in quattro parti che descrivono quattro fasi della vita umana attraverso le lettere di D’Avenia e le parole di Leopardi. Non spaventatevi, si legge anche alla fermata dell’autobus e sotto l’ombrellone. Anzi, vi consiglio di portarvi proprio Leopardi sotto l’ombrellone.
La prima sezione del libro è dedicata all’Adolescenza – o “l’arte di sperare”. E’ la fase in cui si manifesta “il rapimento”, cioè la vocazione che chiama un giovane a vivere in modo pieno. È il momento in cui “il seme” è nascosto nella terra e “spera” – appunto – in un futuro. L’Adolescenza è quella fase in cui la scuola e la famiglia si prendano cura dei “semi” per conto dell’intera comunità. Per potersi trasformare in pianta, il seme dovrà però spaccarsi e dunque “morire”. La Maturità è quindi “l’arte di morire” ed è quella fase in cui siamo chiamati a prenderci “cura” a nostra volta di qualcuno o di qualcosa. È il momento di scegliere e quindi rinunciare, e di dare ombra agli altri con le nostre fronde. D’Avenia parla una lingua semplice e perfetta che arriva all’anima senza farci notare la sua raffinatezza. Restituisce ai ragazzi la dignità delle parole scelte con cura e la loro ragion d’essere: “Prendersi cura è il fine del rapimento, come quando ci si innamora e ci viene affidata una persona. I latini per <<curare>> usavano colere da cui cultum, da cui il termine <<cultura>>. Per potersi fare frutto, ci insegna D’Avenia tramite le parole di Leopardi, dobbiamo però accettare che la fioritura – di una relazione, un’amicizia, una passione, un lavoro – chiede pazienza e non dobbiamo confondere ciò che è “nuovo” con ciò che è “recente”. Nella terza fase della vita impariamo invece a “riparare” ciò che è andato rotto o perduto per strada. Come Leopardi, che ha saputo trasformare i suoi limiti in un canto eterno e in speranza per l’umanità intera, così la felicità è una creatura sommessa che ci chiede di imparare qualcosa di poco tecnologico e poco moderno: trasformare il nostro dolore in un utile per noi stessi e per gli altri. L’ultima fase della vita è infine “l’Arte di morire”: lasciare agli altri per poter accogliere il ritorno alla bellezza originaria.
Riprendiamoci la poesia, dice D’Avenia. Concediamoci, tramite questa lettura, un ritorno a ciò che aveva importanza quando eravamo bambini. Quest’epoca ha bisogno di uomini e donne che ricordino, nei loro più piccoli atti quotidiani e con le loro scelte, le parole di Leopardi: “Non bisogna estinguere la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione”, perché “la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata”. O impariamo questo, o non avremo futuro. Questo libro ci restituisce senso, direzione, speranza, voglia di riparare e soprattutto di agire. Va bene per tutti: panettieri, calzolai, imprenditori, professori, quindicenni, cuori spezzati, baristi, medici, giovani e anziani. Vi sembrerà di aver avuto indietro qualcosa che avevate perduto. In fondo la letteratura ci riporta a casa nell’essenziale compito della nostra storia umana: si deve e “si può, mentre si erra nella notte, persino cantare”.
per BookAvenue, Silvia Belcastro