“Canto alla durata” di Peter Handke: archi del tempo e senso del luogo, nel nostro monotono sublime.
di Alberto Cellotto
Curioso destino quello di Gedicht an die Dauer di Peter Handke, uscito per Suhrkamp nel 1986 e proposto già nel 1988 da Braitan, editore di Brazzano (Gorizia). Nel 1995 il libro fu collocato da Einaudi in una collana non segnatamente poetica, sulla scia di un interesse cresciuto per la produzione dello scrittore austriaco, con in copertina la “Linea Infinita” di Piero Manzoni (accostamento visivo facile ma fallace, dirò perché secondo me). A trent’anni dalla sua apparizione quel poemetto è proposto all’interno della aniconica e candida “Collezione di poesia” (1) meglio conosciuta come “Bianca” (con testo a fronte, pp. 72, euro 10, traduzione e postfazione di quell’Hans Kitzmüller che pubblicò per Bollati Boringhieri Peter Handke. Da «Insulti al pubblico» a «Giustizia per la Serbia»).
Il motivo di quell’interesse precoce da parte dell’editore Braitan, per il quale Kitzmüller curò la traduzione, si fa risalire alle citazioni di più luoghi contenute nel poemetto di Handke, tra cui il lago carsico di Doberdò, vicino a Brazzano. Dato che ci siamo, diciamo anche quali sono i rimanenti luoghi su cui Handke idugia e ritorna nei suoi versi e nei suoi passi, nel suo farsi ghostbuster che vuole acchiappare il fantasma della durata: il lago di Griffen in Carinzia, un angolo di bosco di Clamart e Meudon vicino a Parigi e poi, rimanendo in zona, la Porte d’Auteuil.
Nel titolo Handke dice “gedicht”; per la traduzione è stata scelta la parola “canto”. La scelta potrebbe, almeno in parte, depistare il lettore italiano di poesia. Da quel che so, il tedesco usa la parola “gedicht” per dire molte cose (“poesia”, “poema”, “canto” e persino, nel lessico più famigliare, “meraviglia/sogno”, parole che in italiano creano solitamente aspettative diverse). Non che al tedesco manchino parole per dire “canto” in ambiti diversi (in quello musicale o in quello della poesia epica, ad esempio). Resta che, per ovvi limiti, non riesco a cogliere bene il sapore che dà la parola “gedicht” nel titolo e i titoli, si sa, sono fondamentali. Non depista affatto però l’argomento o tema del libro, la “durata” del titolo, ed è uno dei motivi su cui inviterei a riflettere: un libro con un tema così facilmente individuabile e isolabile è anche un libro di cui si può parlare, è un progetto, un tentativo che alla fine, forse, risulta più facilmente misurabile, persino nei risultati. Non è un fatto secondario se pensiamo ai tanti canzonieri moderni dai temi disparati e occasionali, i quali non agevolano gli interventi di chi ambisce a occuparsi di poesia. (Negli ultimi anni, uno dei libri più graditi dai miei amici lettori forti di poesia è Macello di Ivano Ferrari, più diretto di così…) Scegliere sempre un tema o argomento potrebbe diventare una sfida interessante per chi continuerà a scrivere poesia, la quale, a fronte di temi più agilmente individuabili, diventerebbe più virale. A pensarci è anche questa viralità che sembra irremediabilmente persa e non me ne vogliano gli slam poets se credo che la slam poetry non sia necessariamente la strada maestra per recuperarla. Ma torniamo al libro, anche se questa divagazione sulla messa a fuoco di un tema è di certo la molla che mi ha spinto a scrivere di Canto alla durata. La “durata” è quindi la “cosa” da dire, anzi, verrebbe da dire la “cosa in sé”, perché questo poemetto assomiglia a un ostinato e calmo assedio, percussivo e quasi romantico, attorno alla “cosa in sé” rappresentata dalla durata e dalla sua essenza.
La durata non è però il tempo e non mi pare nemmeno che possa coincidere con il suo significato più comune, ovvero un intervallo di tempo compreso tra due punti. La durata qui è un prodigio, una sensazione probabilmente, un brivido della percezione. Il lettore troverà una citazione da Herni Bergson ed è normale puntare il dito nella direzione più immediata e lampante, rappresentata da questo filosofo che riflette su tempo, durata interiore e simultaneità. Per Bergson fu il tema di una vita, da Essai sur les données immédiates de la conscience del 1889 fino a Durée et simultanéité del 1922, scritto in seguito alle scoperte e di Albert Einstein e al dibattito che da quelle prese le mosse. E proprio se, come vuole Bergson (e Handke con lui), il tempo non è una linea infinita di punti, lascia ancora più perplessi la scelta della “Linea Infinita” di Piero Manzoni per la copertina del 1995, anche perché il genio di Manzoni vuole sottrarre qualcosa allo sguardo (la linea infinita racchiusa nel contenitore cilindrico), mentre Handke cerca di catturare e mostrare qualcosa. La durata s’approssima a essere un momento della percezione che cresce sopra di sé, che si autonutre e autofagocita, in una sorta di melodia vorticosa composta dal tempo della quotidianità e persino dell’abitudine. Resta il fatto che da quando il tempo è oggetto conteso da più discipline (storia, poetica, psicologia, scienze, neuroscienze, teoria letteraria ecc.) le possibilità di dire qualcosa di interessante sul tempo si sono potenzialmente elevate al cubo ma parimenti rarefatte. Parlare con qualche efficacia di tempo e durata è sempre più difficile, ancor più proibitivo da quando il pensiero di Bergson ha trapassato la membrana permeabile della critica letteraria, la quale ha mutuato l’approccio e la trattazione bergsoniana sulla durata interiore e i flussi di coscienza per farne uno strumento interpretativo e descrittivo, sia dei personaggi che della narrazione.
Canto alla durata è una meditazione in versi su un concetto cardine dell’esistenza, anzi, su quel concetto che da solo sottende l’esistenza e che da sempre ha avuto vicende altalenanti a seconda del punto di vista, fosse questo scientifico o psicologico. Gli stati di coscienza, i ricordi e le azioni che Handke riversa in questo poemetto rimandano a una coscienza che vorrebbe essere qualità individuale pura, irriducibile positivisticamente a qualche formula, spazio preciso o numero. Se il tempo è in qualche modo circolare la durata è un arco del tempo, un arco di tempo, una curva compresa tra due punti. Per quanto nella postfazione si contrapponga il camminatore di Handke al flâneur di Benjamin, c’è un residuo duro di estetica benjaminiana in questo suo poemetto, nel ricercare la bellezza e la durata in ciò che sta per svanire, dissolversi o evaporare (ad esempio una pozza d’acqua) e nello sgorgare di plurime “immagini dialettiche” che ricadono sopra i luoghi. Ed è qui che maggiore, almeno per me, inizia a essere la distanza da questo intendere la poesia, anche come ungarettiano “sentimento del tempo” e del suo accumulo su sé stesso, anche sulla base di quotidianità. Per prendere un poeta italiano, credo che buona parte della produzione di Umberto Fiori, pur partendo da premesse “di durata” analoghe a quelle di questo poemetto di Handke, arrivi a risultati già incistati in una sensibilità rinnovata e non perché preferisce un immaginario urbano a favore di uno più naturale. Eppure credo altresì che questa poesia (poema, poemetto o canto) di Handke incentrata sulla durata, così costituzionalmente romantica nel movente e novecentesca nell’estetica che sottende, vada letta perché prosegue in quella necessaria ricerca di senso dei luoghi alla quale dovremmo provare a non abdicare. Ne L’assenza Handke aveva scritto questo noto passaggio, richiamato anche da Hans Kitzmüller nella postfazione:
Credo nei luoghi, non quelli grandi ma quelli piccoli, quelli sconosciuti, in terra straniera come in patria. Credo in quei luoghi, senza fama né risonanza, contraddistinti forse dal semplice fatto che là non c’è niente, mentre intorno c’è qualcosa dappertutto. Credo nella forza di quei luoghi, perché là non c’è più niente, e non ancora niente. Credo nelle oasi del vuoto, non in disparte, ma qua in mezzo alla pienezza. Sono certo che quei luoghi, pur se non fisicamente frequentati, si rifecondano sempre, già con la decisione di partire e con il senso del cammino.
Io invece non saprei più definire un luogo e credo invece che la cosiddetta rivoluzione digitale abbia spostato forse per sempre anche queste parole programmatiche di Handke sulla fedeltà ai luoghi, parole che oggi m’appaiono sempre meno condivisibili, al di là di una normale affettività che può ricondurci a certi luoghi. Se la poesia vuole rifondare in qualche modo se stessa deve passare attraverso un ripensamento del suo rapporto coi luoghi e delle varie geopoetiche, per cantare un arco di tempo differente e una nuova durata. E per farlo, la conoscenza di questo poemetto di Handke, fra l’altro ricco di sorprese, può essere un buon viatico nel nostro viaggio che tuttora dura tra trascendenza e immanenza o, se vogliamo chiudere come un brano dei Massimo Volume, viaggio con “gli occhi chiusi e le braccia aperte in equilibrio nel nostro monotono sublime”.
Alberto Cellotto per Librobreve
note.
(1) l’occasione si deve al suggerimento del libraio romano Michele Genchi a Giulio Einaudi in persona
https://librobreve.blogspot.com/2016/10/canto-alla-durata-di-peter-handke-archi.html
Peter Handke,
Canto alla durata,
edizioni Braitan Brazzzano
Einaudi,
€10,00 pp.72