Paesaggi urbani e umanità nella poesia di Stefano Lorefice

©living with wolfe di sfetfano lorefice
   Tempo di lettura: 10 minuti

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Stefano Lorefice ci ha abituati a parole che evocano il sentimento del singolo nel momento in cui è fatto oggetto dell’osservazione poetica sia nello spazio pubblico sia, allo stesso tempo, dentro la stanza segreta di una città. Di una qualsiasi città.
Dietro queste singolarità, dentro e fuori lo spazio fisico della notte, assai cara all’autore e così ricorrente tra le sue rime, ci sono volti che sembrano riflettere i nostri e voci che somigliano le nostre.
Un esempio, immediato, di quest’urgenza è fermato tra i suoi scarni frammenti, per me i più toccanti, di “La fine di una storia”: figure urbane assortite, come recita la sezione che la contiene, in Passeggeri solitari, il suo nuovo libro e oggetto delle righe che seguono.

Questi brevi testi a verso-libero approfondiscono l’esperienza della periferia, rimandano a vite di margine, del restante dei corpi, di quello che rimane, insomma, di uomini e donne perduti nella loro solitudine che rende esausti. Una città-luogo che si fa perimetro di un hub centrale di tutto. Ma il grande paesaggio urbano di questi versi in disordine, che tali non sono, ecco che si fa racconto e regala, a chi legge, uno sguardo incredibilmente introspettivo.

Robert Conquest (*) grande poeta e grande mente sul rapporto tra poesia e sfera pubblica, sembra venire in soccorso. Una poesia può “rientrare nella storia”, scrive, “ma potrebbe farlo come “agente” o “ostaggio”: di per sé una condizione intollerabile di obbligo di misura, ci dice il poeta inglese. Suggerisce che “la poesia esiste sia all’esterno della storia che al di fuori della storia”. Vale a dire che, una volta che una poesia è fuori nel mondo, non c’è modo di prevedere i diversi usi, stanziamenti, appropriazioni, inappropriazioni, letture e anti-letture cui potrebbe essere messa, né i luoghi e i tempi in cui potrebbe emergere, inquietante, come con un significato fresco. Traduzione del reale, capace di resistere al tempo e, anzi, farsene testimone. Come le sillogi che seguono:

Si sono alzati i corvi attorno a ciò che resta: residui di passi, di un monolocale, di una musa di nessuno. Resiste, però, quel cane randagio che è il nostro amore: un’ultima ipotesi, un’ultima sillaba… un plotone d’esecuzione che non sa sparare.
(Milano – IV piano, ultima porta a destra)

Questo verso rimanda quelli del poeta civile cinese, mentore dei giorni di Tienanmen, Bei Dao di: “The reply”. Solo un cenno:

L’abiezione è il lasciapassare dell’abietto
la nobiltà è l’epitaffio del nobile
Guarda, in quel cielo indorato
sventola il riflesso ricurvo dei morti.

Poesia che si fa cronaca di (quella) scena urbana e consegnata al tempo che viene. (**)

Stefano Lorefice ci consegna tratti di uguale segno, appunti di un’umanità laterale; un gruppo di vicoli quasi sotterranei, nascosti dalle main streets illuminate del centro. Le poesie di Passeggeri solitari scavano dentro un sorprendente, persino scioccante modernismo contemporaneo come dal nulla; come di un’insistenza infantile di meraviglia nel vedere il mondo.
Di nuovo e ancora si trasformano in una rinascita in piena regola nelle lettere. Un camminare attra-verso, inteso come attratto dentro e fino in fondo le parole. Foto di un collettivo non sanzionato dallo stato sia euforico che assolutamente disperato, sia gregario che intensamente solo, pronto e disposto a commettere una sorta di “suicidio spirituale”.

Non è solo questione di periferie, però. Nelle “Istruzioni naturali per paesaggio, valli sospese e altre faccende alpine”, non è difficile vedere il legame profondo e intimo tra l’arte e lo spirito di libertà qui; nella fiducia istintiva che si può essere moderni e antichi allo stesso tempo. Un esercizio che si aggrappa alle pareti di pietra di quelle alte valli che “offrono bivacchi ai dispersi“. A volte le pietre franano, come i versi a Val Masino: il rumore sordo della caduta si sente fino a qui.
Guardiamo solo le prime due righe:

La frana aveva cambiato il paesaggio, le regole, gli equilibri fra le rocce. L’aria portava un odore di terra rivoltata. La montagna con un suono di gola, mormorava… ”

A parte il titolo della raccolta e qualche cenno quasi didascalico a qualche verso, la poesia di Lorefice se ne priva, addirittura quasi non riconosce il suo titolo definitivo. Questo gesto di sottrazione dal supposto obbligo usa strategie oblique ed è una visione di un paesaggio interno infinito. Per essere una poesia di scena pubblica, sembra che parli da un luogo straordinariamente privato.

Come nasce un verso? Credo che possiamo alla fine capirlo. Potrebbero volerci un po’ di tempo e lavoro, come la poesia spesso chiede. Un esercizio diviso tra ricerca linguistica e di senso. E’ leggere più volte le singole parole come in una lotta: l’una contro l’altra. Un modo per vedere e triangolare ciò che sta facendo il poeta mentre compone.  
Cosa pensa? Come potrebbe essere la poesia in origine? Appunti? Scatta foto? Parla con il tizio della sezione delle “Figure urbane assortite”: “con la camicetta anni ’80 di motivi floreali stile Magnum P.I.?” Oppure conosce strade e case dove quelle parole albergano e va a chiamarle?

Questa non è una semplice ripetizione, tuttavia. Certi poeti mostrano come la parola in ogni caso è rivolta contro se stessa, in una lotta viscerale per l’esistenza personale e perché il linguaggio abbia un significato e/o uno scopo. Da questo punto di vista la poesia, la maggior parte delle volte, inizia a emergere.  Così chiaro nel verso: “E’ lo scontro quotidiano, la pace cercata, che spinge a continuare.”, per citare ancora una volta l’autore, dal sesto componimento della sezione “Utili conversazioni notturne”. Quel timbro, continua a risuonare anche dopo, nel momento in cui scrivo, pensando agli avventori del bar di seconda o terza strada, non la principale, e al silenzio di ovatta la cui espressione alimenta l’incredulità. Rimanda al celebre quadro dei Nottambuli di Edward Hopper. Anche qui Stefano Lorefice, ma ci ha abituati, gioca con la metrica con una spaziatura diacronica: s’inserisce tra la fronte e la sirma.

Sarebbe meglio fermarsi qui, perché non ho ancora affrontato il paradosso finale della poesia: tra interno ed esterno, pubblico e privato. Ognuno dei suoi lettori/recitatori, è certo, sente la voce dall’interno in modo un po’ diverso. In questo senso, Stefano Lorefice manca della sua: quella di parlare pubblicamente delle cose in cui crede, compresa la lettura della sua opera. Mostrarsi e mostrare una ricerca spirituale e linguistica sopra ogni altra cosa.

Se torniamo alla performance dei Passeggeri solitari, magari con della musica sinfonica, iniziamo ad avere un’idea di come altra cosa la poesia potrebbe essere immaginata in pubblico. Negli anni, i lettori di Stefano Lorefice hanno accettato il significato letterario delle sue rime. Manca una raggiungibilità fisica verso le sue consonanze; si assiste a strade assenti verso i suoi versi. Lo si è accennato prima: percorsi verso parole che non sono neanche più sue.

Mi correggo. Chiamare questa raccolta performance è grave eufemismo. Fa pensare alla pubblicità. Linee guida di prodotti promossi a boom boom, con volume provocatoriamente alto. Come fa la TV. Penso che l’artista attinga a modalità “tradizionali” di esecuzione poetica. Si scrive per farne testimonianza di altro. Di durata. Scrittura: ecco cosa. Volume basso.

Al lettore non rimane che esserne impressionato; anche molto scosso. Mi ero abituato in questo tempo – da “Frontenotte” ai “Passeggeri solitari” – allo stile e all’inflessione così profondamente interiore dell’autore che per quest’ultimo lavoro ho dovuto chiedere lumi, ancora una volta, al Canto alla Durata di Peter Handke. Non solo per una rinnovata lettura, ma per misurare la diacronia.

Come una voce famigliare che ti chiama dall’altro lato della piazza dopo un tempo remoto. Ti giri sapendo chi è ma non ne ricordi il volto. Tanto che ne è passato.

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per BookAvenue, Michele Genchi

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note:
(*)Robert Conquest, poeta e saggista inglese testimone del secolo. Negli anni trenta entrò in conflitto con la sua generazione ancora animata da ideali sociali e romantici proponendo l’obiettivo di una poesia aderente alla realtà e al rapporto della poesia con se stessa, con la natura delle cose e del pensiero.
(**)Il testo di The Reply (La risposta) fu redatto per la prima volta a metà degli anni ’70 e successivamente durante le agitazioni per la democrazia in piazza Tienanmen. Divenne manifesto del movimento poetico Menglong che incarnava le inquietudini e le aspirazioni della generazione cresciuta con la cosiddetta rivoluzione culturale.


Stefano Lorefice,
Passeggeri solitari,
La Gru edizioni,
2023, pp.78 €12,00

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1 commento

  1. bravo Mike!, Soccia, qui a Bologna il libro non si è visto. Chiederò a Fastb.
    un saluto
    FF

I commenti sono chiusi.