Come a molti capiterà, un giorno smetteremo di fare quello che facciamo per forza o per scelta. La prima è legata alla fine del tempo del lavoro, per cui arriva il momento, volente o nolente, di dover andare in pensione. Gli altri, quale che sia il motivo, possono scegliere o decidere di fare il mestiere del camminatore naturalista: la cosa potrebbe rivelarsi anche remunerativa oltre che ad una spettacolare scelta di vita.
E’ la seconda volta che scrivo di Robert Macfarlane; questa cronaca di lettura è un atto dovuto a quest’uomo il quale dev’essere una rarità nell’umano bagaglio del mondo e che ha anche un certo non so che di avventuroso. C’è pure qualche illustre recensore che lo ha definito avventuriero, termine scomodo, temo, per definire un professore di critica letteraria a Cambridge, con la passione per la montagna e altrettanta per la natura nel senso ampio del termine. Tuttavia c’è dell’avventuroso prendere sonno in cima ad una montagna in mezzo alla neve e al freddo, come quei matti che si vedono su YouTube nei winter wild-camp, per capirci. Aggiungo: chi non vedrebbe l’ora di misurarsi con la libertà più assoluta in un contesto del genere? “Se il resto della vita ti proponesse qualcosa di simile, non vedresti l’ora che cominciasse il resto della tua vita.” La citazione non è mia: l’ho ricordata da un film. Penso, però, che il fatto di vivere in una zona molto, molto popolata come la città dove insegna, abbia reso l’autore quello che in fondo è: un cercatore di silenzio, prima di tutto.
In Luoghi Selvaggi, l’autore, proprio come le aspirazioni di chi scrive, traccia, zaino e tenda in spalla, un’inedito itinerario lungo misteriose terre di pietra, di legno e di acqua(*), si viaggia con l’autore in molte terre isolate e remote della Gran Bretagna compreso Scozia e Irlanda, alla ricerca proprio delle ultime vere zone selvagge. Dividendo il libro in capitoli dai titoli evocativi, come Moor: nome gaelico di una zona della Scozia adiacente a Perth, o Vette per definire la cima del Ben Hope, grandiosa ma non altissima (arriva a 1000 metri circa) del Sutherland nell’estremo nord dell’isola, Macfarlane cammina negli angoli disabitati del Regno Unito e, lungo la strada, racconta la storia dei luoghi e dei cittadini britannici che amano quei luoghi, a volte, più della loro vita.
Nei suoi intermezzi storici, l’autore va indietro di decenni, tra le due guerre e la deforestazione forzata cui hanno costretto i tempi di allora, o mentre affronta i ghiacciai, raccontare delle placche tettoniche che, muovendosi, hanno formato quei luoghi di passaggio. Racconta pure le storie di personaggi familiari anche da noi tipo, George Orwell: il suo autodistruttivo amore per nord e il freddo pungente dell’isola di Jura, o il poeta Ivor Gurney pieno di disperato amore (disperato, dice proprio così l’autore) per i suoi boschi del Gloucestershire. Senza questi personaggi che punteggiano e quasi definiscono il paesaggio, questo libro si sarebbe privato di persone; sarebbe come camminare lungo da soli. Soli, per circa 300 e passa pagine. Il che non vuol dire che sia brutto, intendiamoci, ma anche che il libro sia pieno di gente. Macfarlane ha una capacità unica di creare e trasmettere un tono di solitudine e isolamento. Qualsiasi sia il viaggio intrapreso, lo intraprende da solo. Anche quando egli “porta” i suoi amici, li lascia ad un certo punto, per trascorrere magari una serata fuori al freddo, per conto suo. Lo stesso accade anche quando si imbatte in alcune persone in viaggio. Uno pensa: ecco finalmente fa un po’ di strada con qualcuno e invece, opta quasi sempre per proseguire il viaggio in solitaria.
Nel libro ci sono alcuni passaggi fondamentali. Non mi riferisco solo alla descrizione dei luoghi il cui timbro l’ho conosciuto nelle “Antiche vie”, quanto alla condizione fisica del camminatore. In molti di questi viaggi, sembra dormire in maniera irregolare, se non del tutto. E mi colpisce che forse gli avventurieri (da, avventuroso), sono in realtà persone che mettono semplicemente alla prova la propria capacità di resistenza che può essere acquisita solo attraverso una provata e consapevole deprivazione fisica.
Macfarlane descrive quasi tutto quello in cui si imbatte con grande animo e forma letteraria, bella da leggere. Raccogliere ricordi dal paesaggio: una pietra da qui, un po’ di arbusti, del muschio da lì, Macfarlane sembra stia cercando di spingere se stesso lontano dalla gente, nel paesaggio, nel deserto naturale che ha davanti.
Ed è questo che dà un’aria decisamente avventurosa e che rivela ciò che il libro è essenzialmente: un diario di viaggio a piedi assai ben scritto sulla Gran Bretagna. Il suo linguaggio è quasi lirico anche se cadenzato ma non cantato.
Di Thoreau ed altri autori che hanno saputo raccontare del rapporto uomo-natura e dell’arte del camminare ho parlato alcune volte: inutile ripetersi. Se volete sapere qualcosa in più di come una persona abbia tracciato una nuova mappa percorribile, un nuovo sentiero tra le terre e le brughiere più isolate e selvagge della Gran Bretagna, se siete interessati ad una canzone il cui canto sembra intonare la voce di Enya, non potrei raccomandare altro di meglio che questo libro. Il primo di una trilogia che comprende anche “Come le montagne conquistano gli uomini” tra un po’, prometto, su queste pagine.
Per BookAvenue, Michele Genchi
*dalla scheda del libro sul sito Einaudi