Chiamano questo posto Tiantang, cioè Paradiso, ma è tutto una specie di scherzo e allora i contadini si arrabbiano di brutto, prendono d’assalto la sede del distretto, entrano di forza negli uffici, lanciano dalla finestra i vasi di fiori e danno fuoco ai documenti, alle tende, ai mobili. Sono esasperati e non ce la fanno più a sopportare l’arroganza del Partito che li obbliga a coltivare solo aglio e non riesce a trovare nessuna soluzione per uscire da una crisi che sembra non finire mai.
Tutto è macchiato, spezzato, frantumato… Tanto il popolo è stupido, e deve rimanere stupido e povero, in modo che la stupidità possa garantirlo il potere.
Intanto l’aglio a Tiantang marcisce invenduto sotto il sole e si sente un tanfo di putrefazione che sembra avvolgere ogni cosa…
Colpisce sempre leggere Mo Yan e tutte sue queste sue atmosfere sotto cui accatasta un universo di immagini. I momenti di cui scrive restano incisi nella memoria, fanno pensare perché sono fragili, delicati, indifesi. Il loro fascino, spesso, non sta nella loro sostanza, ma nella musica continua e indeterminata che li avvolge.
Poi, ad un tratto, dal cielo scende una luce implacabile, che accieca e non dà spazio all’ombra. E le cose appaiono lontanissime, rimpiccolite, scolorite, sbiadite, senza il robusto rilievo dei contorni…
Mo Yan, Le canzoni dell’aglio, traduzione di Maria Rita Masci, Supercoralli, Einaudi 2014.