Aleksandr Solzenicyn, la cui caparbia e solitaria lotta letteraria, ha acquisito nel corso degli anni il sentimento della profezia, l’autore che ha rivelato le pesanti afflizioni del comunismo sovietico in alcune delle opere più potenti del 20° secolo, morì a Mosca una domenica mattina di inizio agosto del 2008 all’età di 89 anni senza clamore e senza troppo disturbare. Quello, è stato un giorno triste per il mondo. Davvero.
Solzenicyn ha vissuto per quasi 17 anni da esule, sconfitto dallo stato sovietico e dal sistema che aveva combattuto attraverso anni di reclusione, ostracismo fino, appunto, all’esilio. E’ stato uno sconosciuto fino a quasi la mezza età; viveva e lavorava come insegnante di scienze di un liceo in una città di provincia russa, quando scoppiò sulla scena letteraria nel 1962 con “Un giorno nella vita di Ivan Denisovich”. Il libro, una pubblicazione di rottura su un campo di prigionia, generò un eco sensazionale. Improvvisamente fu apparentato ai giganti della letteratura russa come Tolstoj, Dostoyevski e Cechov.Nel corso dei successivi cinque decenni, la fama di Solzenicyn si diffuse in tutto il mondo attraverso libri che, come lui stesso ebbe modo di richiamare, erano scritture di testimonianza sulle sue esperienze di coercizione totalitaria. Tra tutti: “Padiglione Cancro”, “Primo cerchio” e, l’opera forse più importante, “Arcipelago Gulag. ”
“Gulag” è stata una monumentale denuncia dell’Unione Sovietica e del suo sistema dei campi di lavoro: una catena di carceri dove, dal calcolo di Solzenicyn, circa 60 milioni di persone erano entrati nel corso del 20° secolo. Molti milioni dei quali non ha fatto più ritorno.
Il libro ha portato al suo allontanamento dalla sua terra natale. George F. Kennan, il grande diplomatico americano, ha descritto il libro come “la più grande e più potente singola accusa a un regime politico dei tempi moderni”.
Solzenicyn è stato erede di una morale e spesso profetica tradizione letteraria russa, che ha saputo guardare dentro la propria società senza timore alcuno. . Con la sua barba da Vecchio Testamento, egli ha ricordato Tolstoj pur suggerendo un moderno Geremia, denunciando i mali del Cremlino e più tardi anche la corruzione d’Occidente. È tornato in Russia e ha deplorato ciò che egli considerava il declino spirituale della sua Patria, ma negli ultimi anni della sua vita ha abbracciato il Presidente Vladimir Putin come un restauratore della grandezza della Russia.
In quasi mezzo secolo, più di 30 milioni dei suoi libri sono stati venduti in tutto il mondo e tradotto in circa 40 lingue. Nel 1970 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura.
Solzenicyn dovette il suo primo successo alla decisione di Khrushchev di autorizzare “Ivan Denisovich” che fu pubblicato in una rivista popolare. Khrushchev aveva creduto alla pubblicazione come l’anticipo della linea liberale che aveva promosso egli stesso con il discorso segreto del 1956 sui crimini di Stalin.
E tuttavia non si spiegherà mai abbastanza il cambiamento di linea assunto da Khrushchev subito dopo l’apparizione del racconto, il quale assunse una linea di durissima e di vera persecuzione nei confronti dell’Autore tale da impedirgli di vedere pubblicata qualsiasi altra opera e, come se non bastasse, denunciandolo come un traditore e confiscando i suoi manoscritti.
La loro morsa, comunque, non poteva contenere la portata delle opere di Solzenicyn. Da allora le sue opere sono state pubblicate al di fuori della Unione Sovietica, in molte lingue, ed è stato comparato non solo ai giganti della letteratura Russa, ma anche alle vittime di altri scrittori per mano di Stalin: scrittori come Anna Akhmatova, Osip Mandel’štam e Boris Pasternak.
A casa, il Cremlino intensificò la sua campagna di killeraggio intellettuale facendo espellere Solzenicyn dalla potentissima e autorevole unione degli scrittori. Non senza cedere l’onore delle armi delle quali Solzenicyn non sapeva che farsene, quanto per riuscire ad riavere il suo microfilm di manoscritti. Cosa che gli riuscì attraverso una rocambolesca azione di contrabbando in Unione Sovietica.
Rivolse petizioni agli organi di governo , scrisse lettere aperte, chiese una mobilitazione di sostegno tra amici e artisti, e corrispondeva con persone all’estero. Non fu lasciato solo. Centinaia di ben noti intellettuali firmarono petizioni contro il suo silenzio, i nomi grossi della sinistra come Jean-Paul Sartre ebbero un particolare peso a Mosca. Altri sostenitori furono: Graham Greene, Muriel Spark, WH Auden, Gunther Grass, Heinrich Boll, Yukio Mishima, Carlos Fuentes e, dagli Stati Uniti, Arthur Miller, John Updike, Truman Capote e Kurt Vonnegut. Tutti uniti a una chiamata per un boicottaggio internazionale culturale dell’Unione Sovietica.
Tale posizione di fermezza gli valse il premio più ambìto. Quando gli fu assegnato il Premio Nobel 1970, nonostante le pressioni e successivamente le proteste tanto vane quanto le polemiche sollevate da Mosca alla motivazione del premio, la giuria non ebbe dubbi e sentenziò: “l’etica e il vigore con cui ha perseguito le indispensabili tradizioni della letteratura russa”.
Solzenicyn tuttavia fu costretto a non recarsi a Stoccolma per accettare il premio per il timore che le autorità sovietiche gli impedissero il ritorno.
Ne il tentativo di riceverlo all’ambasciata di Svezia fu reso possibile a causa del timore del governo svedese di guastarsi i rapporti con i russi. Fatto sta che riusci a ritirare il premio solo nel 74 dall’esilio, l’anno dopo la pubblicazione del “Gulag”. Fu grazie alla conoscenza di questo nome, che il mondo seppe di quanto accadeva in Russia.
Egli ha spesso, quanto dolorosamente ricordato come, in mezzo a estenuanti camminate in coda a una colonna di prigionieri nella oscurità e il freddo amaro della sera, si sia chiesto se il mondo sapesse di loro e di volerlo gridare con quanto più fiato avesse nel petto fino a lasciarsi morire.
Riferendosi ai colleghi dell’unione e del loro voltafaccia ha scritto che, mentre un uomo normale è solo costretto a “non partecipare alle menzogne” e alla possibilità di sottrarsi, gli artisti avevano una maggiore responsabilità. “E’ nel potere di scrittori e artisti di fare molto di più: per sconfiggere la menzogna!”
Entro la data del premio Solzenicyn aveva completato il suo massiccio tentativo di veridicità, “Arcipelago Gulag”. Dove, con più di 3000000 di parole, ha raccontato la storia dei Gulag e dei campi di prigionia, le cui operazioni e anche lo loro esistenza sono stati considerati a lungo un vero tabù .
Alcuni editori a Parigi e New York avevano ricevuto segretamente il manoscritto su microfilm e desideravano pubblicarlo immediatamente, prima, cioè, che il libro comparisse in Unione Sovietica, ma Solzenicyn chiese loro di rinviare la pubblicazione. Poi, nel settembre 1973, cambiò idea. Egli aveva appreso che una spia sovietica del KGB, aveva rinvenuto una copia sepolta copia del libro e dopo la feroce interrogazione della dattilografa, Elizaveta Voronyanskaya, e non ultimo, il pensiero di essere perseguitato a morte anche in esilio, a farlo decidere di vederlo edito.
Della sua eredità si è molto parlato in questi giorni. E’ bello ricordare come recentemente in una occasione pubblica, avendo riavuto la sua dignità e celebrità in Patria, ha lasciato ai suoi concittadini un testamento morale: ha detto che la sua vicenda può essere presa ad esempio nel caso la Patria rischi di ricadere negli orrori del passato. E di qui attingere per dare nuova linfa alla democrazia incompiuta che la Russia sta ancora cercando dalla caduta del muro di Berlino.
per Bookavenue, Michele Genchi