dalla nostra inviata alla Fiera di Francoforte, Silvia Belcastro
Dove prima c’era il mobile su cui ho appoggiato occhiali, matita e taccuino, adesso c’è una distesa d’erba alta divisa da un sentiero. Dalla boscaglia esce una colonna di soldati che vengono verso di me. Indietreggio, ma la distanza non cambia. Mi passano accanto come se non mi vedessero. “Puoi girarti”, mi dice una voce ovattata. E’ vero… posso girarmi. Difatti, alla mia destra c’è una macchia scura che non avevo visto: un bue! Non faccio a tempo a guardarmi alle spalle che mi ritrovo in piedi sul carico di un camion: sotto di me c’è una piana riarsa e una tendopoli. Ho le vertigini. Mi volto e scopro che sul camion c’è anche un soldato e anche lui non si cura della mia esistenza. Poi sono in una pozza d’acqua putrida: c’è una gip arenata e un ragazzo coi piedi nel fango. Istintivamente guardo in basso perché non voglio bagnarmi i piedi ma… io non ho piedi. Quando mi tolgo la gigantesca maschera ermetica, i miei occhiali sono ancora sul mobile, accanto alla matita e al taccuino. E il mio primo pensiero è: a quale di questi due universi appartengo realmente?
Questo è il mio primo impatto con la Fiera del Libro di Francoforte. “Ho voluto mostrarti questo documentario sui rifugiati”, dice il ragazzo, “per farti capire cos’è la VR, la realtà virtuale”. Di colpo mi ricordo di applicazioni in medicina, ma non ho idea di ciò che il ragazzo mi sta spiegando: “La VR è un mezzo diverso dal cinema, che sta cercando un suo linguaggio. Viene utilizzata in molti campi dalla pubblicità, all’insegnamento, ai documentari, al gaming. Pensa che a Venezia quest’anno è stato proiettato il primo film in VR, quindi con sedie girevoli e visori. Google, Facebook e tutti i grandi marchi hanno già girato piccoli spot in VR”.
Ok, prendo atto che la realtà virtuale esiste e che in questi padiglioni sembra più reale di tutto il resto. Ho chiesto di provare quest’esperienza perché ovunque vedo giganteschi occhialoni neri (nome tecnico: visori VR). Proprio ora, una ragazza occhialo-munita sta urlando “Oh my God! Oh my God!” mentre pedala su una ciclette. Dove sarà, sull’Everest? E quel tizio che guarda il soffitto cosa vede, pterodattili? Avete capito: ci troviamo nell’attrazione di quest’anno, l’area The Arts+. E si, anche io ho dei dubbi sul significato del +. Ma andiamo, sta iniziando una conferenza che forse può chiarirci le idee: Cultura e tecnologia. Il Netflix per i contenuti culturali...
“La prima espressione della cultura”, dice un signore che mi sta simpatico, “è l’arte. E la maggior parte delle testimonianze dell’arte stanno nei musei”. Sta presentando una start-up che propone la tecnologia digitale come supporto nella trasmissione della cultura. Dietro di lui scorrono immagini di Roma a volo d’uccello e tutt’a un tratto gli edifici si trasformano nel loro equivalente dell’Antica Roma. Mi piace! La prospettiva di insegnare in questo modo è veramente attraente e per questo, spiega il signore simpatico, è necessario coinvolgere editori, scrittori, esperti di digitale. La mia mente si fissa su questa parola: attraente. Me la segno sul taccuino: è degno di nota che nel mondo contemporaneo l’essere umano abbia la necessità di una realtà aumentata e attraente. Il punto di incontro di questa tecnologia e la letteratura – il signore lo sta dicendo ora – è un termine ormai di uso comune: storytelling (“raccontare storie”, nell’accezione di significato che più preferite). Eppure certe storie, da questa fiera dell’editoria, continuano a restare completamente assenti. L’ambiente, per esempio… ma quest’anno non mi stupisce neanche tanto, vista la fusione Monsanto-Bayer.
Mi alzo, perché voglio intervistare qualcuno nello stand ungherese. Spiego al front-office che farò una domanda delicata: come la politica ungherese degli ultimi anni ha influito sul settore editoriale? Compare András Sándor Kocsis, il Presidente dell’Associazione degli Editori e Librai Ungheresi. “Gli aspetti della questione”, mi dice bonario, “sono principalmente due. Al momento, nella relazione fra governo e settore editoriale non ci sono problemi. Qualche tempo fa però è successa una cosa poco gentile”. Usa proprio il termine inglese: “impolite”. “Saprà a cosa mi riferisco: è stato privatizzato il settore dell’editoria scolastica. O meglio, è rimasta fuori dalla privatizzazione solo una sola casa editrice ma i prezzi sono stati pensati in modo tale che la gente non avesse molta scelta”. Il secondo punto del problema è invece che “il governo non supporta abbastanza la letteratura ungherese. Pensi che abbiamo tra la più bella letteratura a livello mondiale, ma non riusciamo a tradurla. Non vengono finanziati progetti di traduzione, mentre il governo finanzia lo sport. Lo dico da sportivo: lo sport è una cosa bellissima. Ma guardi che scrittori che abbiamo“. E qui si alza e mi mostra la colonna dello stand ungherese, su cui campeggiano i volti di Imre Kertész, Péter Esterházy, Georg Konrád…
Lo saluto con gratitudine e una punta di affetto. Le sue parole mi fanno pensare e mi dirigo nello Spazio Italia. L’area è circondata da pareti ricoperte di libri aperti, ma sia lo stile architettonico che la disposizione degli stand rivelano la nuova costellazione nata dalle recenti fusioni, vendite, cessioni, acquisizioni. Di tutto questo non si può parlare con i big, per cui scelgo di chiacchierare nei medi e piccoli stand. Scopro una novità: due regioni italiane – Lazio e Piemonte – sono presenti con due grandi iniziative. Il Lazio, mi spiega la responsabile dello stand, ha puntato sulla propria editoria indipendente ed è stato anche finanziato un progetto di traduzione in inglese di 111 titoli. Simile l’iniziativa della regione Piemonte, che ha aiutato i suoi editori e stampatori a venire a Francoforte.
Nello stand del Lazio mi fermo a parlare con Marco Ruffo Bernardini, direttore commerciale delle edizioni Tunué. Mi colpiscono l’entusiasmo e la professionalità. Mi spiega come il fumetto e il graphic novel siano generi che stanno finalmente trovando spazio e riconoscimento, poi mi mostra il catalogo creato insieme alla Regione. Sono colpita dalla bellezza delle immagini. Da qui, l’Italia si presenta non solo come concentrazioni ma anche come un mosaico di realtà fanno un ottimo lavoro.
Aggirando le Edizioni dei Musei Vaticani – un enorme vascello che occupa un quarto dell’area italiana e sulle cui vele campeggia il motto “Remiamo al servizio della Chiesa” – mi dirigo al piccolo stand alla Baldini e Castoldi. Cerco un editore medio con cui chiacchierare. A Marco Dalai chiedo un parere su come la nostra politica influenzi il consumo editoriale. Sorride: “La influenza in quantità e in qualità. Ti faccio un esempio. Nel periodo del Referendum Costituzionale, in Italia la gente vuole informarsi e dunque si può arrivare anche a molti titoli su questo tema. Ma quando è uscito How not to die – un libro di un nutrizionista che spiega come molte malattie possano essere prevenute con la dieta – abbiamo dovuto cambiare il titolo in Sei quel che mangi. Il cibo che salva la vita. Perché un titolo del genere in Italia è considerato allarmista e dunque non vende. La gente ha bisogno di pensare che ci sarà mozzarella di bufala per sempre. Ma non è vero che gli italiani non leggono, sai. E’ che è anche colpa di noi editori, che ancora siamo po’ distratti riguardo a tematiche come il digitale. Per esempio, la gente legge sui telefoni e bisogna rendersi conto che anche questo è un nuovo formato di lettura. Dobbiamo adeguarci”.
Uscendo, passo in mezzo allo stand iraniano. Quante cose sono cambiate in un solo anno. Nel 2015 l’Iran aveva disertato la fiera con tetri cartelloni di rivolta, mentre qui si respira aria di eleganza e affari. Dall’altro lato del corridoio, lo stand turco dichiara che “la Turchia legge”: 56.414 nuovi titoli, 620.751.618 libri stampati, 4300 editori nel 2015. Me ne vado con una sensazione di pace inquieta. Mi manca un grido, una verità, una sostanza. Su ogni stand si trova un set titoli di attualità: Islam e migranti, migranti e Islam. Ma come decidono questi editori, come un sol uomo, quale sia l’attualità e su quali attualità bisogna invece tacere? Questo luogo sa di allegro mercanteggiare, del rimettersi in sesto, del trovare nuovi accordi, del tutto-va-bene, di politically correct, dell’inventare un business, del raccontare storie, della realtà virtuale. Realtà virtuale, lettura digitale: strumenti che – se usati bene – offrono grandi prospettive in molti campi. Ma una domanda rimane: una volta non ci bastava un buon libro, per provare empatia?
per BookAvenue, Silvia Belcastro