Il libro
In “Grandpa Clemens & Angelfish, 1906,” Twain viene citato per i suoi platonici rapporti – e che altro sennò? -con ragazze adolescenti -upholstered ladies- “imbottite”, dice letteralmente, riferendosi evidentemente alle misure dei loro reggiseni, consolandosi con la adulazione delle giovani dalla perdita della sua altrettanto giovane figlia Suzy. Che mi sembra un modo, vogliamo dire… singolare?, di elaborare un lutto. Lo incontriamo a 70 anni, stanco, mentre ha lasciato in sospeso la fine della sua ultima opera. Introduce le giovincelle in un club esclusivo di cui egli è membro, dona loro biglietti per il “Lago dei cigni” e ha qualche scambio di lettere…libidinose, tanto… di più sa di non poter chiedere, e questo scambio dovrebbe servirgli a rinnovare la fantasia con cui portare a termire il suo ultimo lavoro con la stessa facilità con cui ha scritto in gioventù. E meno male!, sai che figuraccia?
Non per errore, “Wild Nights!” È anche un ciclo di racconti circa la morale sessuale e di potere.
In “Il Maestro al San Bartolomeo’s Hospital, 1914-1916,” l’Henry James di Oates trova ispirazione tra i giovani, anche se in un modo più salutare di Twain.
Un gentile signore di 71 anni (proprio Henry James!) non vuole entrare nel reparto ospedaliero riempito di soldati feriti, ma non ha scelta e come volontario deve aiutare questi “cari ragazzi “tornati dal fronte mutilati. In realtà fa i conti con il suo senso di colpa per essersi imboscato durante la guerra civile americana.
La Oates si diverte a raffigure James in ospedale, ed è nei riguardi del grande scrittore davvero spietata: lo descrive in maniera quasi voluttuosa, mentre pone attenzione per le piaghe e il marciume della carne. Oates scrive di lui come a un operatore pignolo ed esigente. E tuttavia la presenza sanguinolenta di questi reduci massacrati dalla guerra, ravvivano, scuotono e, infine, catapultano il Maestro in un paradiso di sensuale sentimento morale e gentilezza.
James crede di farla franca mentre confessa sul suo diario che “l’arte non è importante di fronte a tutto questo” ma non inganna i biografi dei decenni a venire. In fondo, i suoi pronunciamenti non lo salveranno dalla menzogna.
La vera vita deve sempre essere nascosta”, spiega l’Hemingway di “Il Papa a Ketchum” (o il papà? ma in inglese sarebbe dad o daddy: si riferisce allora davvero ad un… neo-pontefice) , mentre carica il suo nuovo fucile. Hemingway sta progettando la sua ultima parola: suicidio.
Il resto è cronaca letteraria: in quell’anno, l’ultimo della sua vita, va a vivere appunto a Ketchum, nell’Idaho, dopo che i rapporti con la Cuba di Castro si sono guastati: Fidel lo aveva sorpreso di notte a rubare rum dalla sua cantina. Di qui il famoso detto: la rivoluzione non dorme! Qui trascorre i suoi ultimi momenti continuando ad entrare ed uscire dalle cliniche, ma senza compiere significativi miglioramenti. Avviene anche un primo tentativo di suicidio fermato giusto in tempo da Mary (la sua seconda moglie che, come la prima, viveva con i sensi di colpa di non avere il seno grosso quanto quello di Agnes von Kurowsky, la crocerossina che accudì, diciamo… amorevolmente, il Maestro dopo che fu ferito durante la 1ma guerra mondiale in Italia).
Il suo stato depressivo aveva superato il livello di guardia e all’indomani dalla dimissione dalla Mayo Clinic, in cui aveva subito l’ennesimo elettroshock, decise di togliersi la vita.
Mary Welsh racconterà che la sera prima il grande scrittore sembrava sereno, l’aveva portata fuori a cena e aveva cantato con lei una vecchia canzone prima di coricarsi; la stessa con cui la mattina dopo fu svegliata di colpo: Hemingway la cantava a squarciagola, seguita poi dal rumore del suo fucile. Hemingway morì cantando. Questo i biografi non lo diranno mai. E’ il 2 luglio del 1961.
E nel surreale “Poe Postumo, o, il faro”, coglie il racconto incompiuto di Poe, scritto come un diario fittizio, e lo ricrea immaginando il poeta solitario guardiano di un faro (in Cile se ho capito bene) mantenuto a mozzarelle e a prodotti lattiero-caseari alla vigilia della sua morte.
Spero davvero che qualcuno lo traduca presto, il mio inglese non mi ha permesso di capire bene quest’ultimo, nonostante due dizionari e la mia amica Mara che ancora ride delle mie difficoltà linguistiche. Mentre Francesca mi consola dal sentirmi un uomo finito.
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L’Autrice
Joyce Carol Oates è una delle grandi scrittrici e nome tutelare della letteratura americana contemporanea. Ha scritto una settantina di libri (ho provato a cercarli e contarli un pò tutti ma davvero non sono riuscito a fare una mappa precisa dei suoi lavori) tra romanzi racconti e saggistica. Ha compiuto da poco settantasette anni ma ha scritto il libro al suo settantesimo compleanno e dev’essere stato forse questo il motivo che l’ha spinta a divertirsi con questo Wild Nights, Notti frenetiche (o selvagge?). Non mi si punisca per l’eventuale cattiva interpretazione di senso – ma questa è la scheda di un lettore e non di un recensore, il che potrebbe apparire disfunzionale a prima vista. I lettori leggono, non scrivono che diamine! Ma il piacere di trasmettere è più forte del buon senso che imporrebbe un più casto silenzio.
La disfunzione, però, è anche il soggetto della sua esilarante e straziante nuova raccolta di racconti, Con un titolo preso a prestito da una ardente poesia di Emily Dickinson ( “Wild Nights intraducibile dal mio inglese d’apprendista- O frenetiche notti!/Se fossi accanto a te/ queste notti frenetiche sarebbero/la nostra estasi!), Queste storie ingegnosamente immaginarie documentano gli ultimi giorni (e notti) di cinque grandi scrittori: Edgar Allan Poe, Emily Dickinson, Mark Twain, Henry James e Ernest Hemingway. Badate bene: tutti hanno raggiunto, nei racconti del libro, la settantina. Come l’autrice.
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per Bookavenue, Michele Genchi
il libro
Joyce Carol Oates
WILD NIGHTS!
Stories About the Last Days of Poe, Dickinson,Twain,James,and Hemingway..
Ecco/HarperCollins Publishers
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