dal risvolto di copertina
Nei mesi che precedettero il suo arresto e la deportazione ad Auschwitz, Irène Némirovsky compose febbrilmente i primi due romanzi di una grande «sinfonia in cinque movimenti» che doveva narrare, quasi in presa diretta, il destino di una nazione, la Francia, sotto l’occupazione nazista: Tempesta in giugno (che racconta la fuga in massa dei parigini alla vigilia dell’arrivo dei tedeschi) e Dolce (il cui nucleo centrale è la passione, tanto più bruciante quanto più soffocata, che lega una «sposa di guerra» a un ufficiale tedesco). La pubblicazione, a sessant’anni di distanza, di Suite francese, il volume che li riunisce, è stata in Francia un vero evento letterario. Non è difficile capire perché: con Suite francese ci troviamo di fronte al grande «romanzo popolare» nella sua accezione più nobile: un possente affresco, folto di personaggi memorabili, denso di storie avvincenti, dotato di un ritmo impeccabile, nel quale vediamo intrecciarsi i destini di una moltitudine di individui travolti dalla Storia. Su tutti – il ricco banchiere e il giovane prete, la grande cocotte e la contadina innamorata, lo scrittore vanesio e il ragazzo che vuole andare al fronte e scopre invece le gioie della carne fra le braccia generose di una donna di facili costumi – Irène Némirovsky posa uno sguardo che è insieme lucidissimo e visionario, mostrandoci uno spettro variegato di possibilità dell’uomo: il cinismo, la meschinità, la vigliaccheria, l’arroganza e la vanità, ma anche l’eroismo, l’amore e la pietà. «La cosa più importante, qui, e la più interessante» scriveva la Némirovsky due giorni prima di essere arrestata «è che gli eventi storici, rivoluzionari, ecc. sono appena sfiorati, mentre viene investigata la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto la commedia che questa mette in scena».
Romanzo magnifico, Suite francese fu scritto in presa quasi diretta con gli avvenimenti che narra – i primi bombardamenti su Parigi e l’arrivo dei tedeschi nel giugno del 1940 -, ma rimase incompiuto nel suo ampio progetto perché l’autrice venne deportata ad Auschwitz, dove morì forse sul treno in viaggio, forse in una camera a gas il giorno stesso in cui venne scaricata nel campo di concentramento polacco. Pensato sulla falsariga di una composizione musicale prevedeva almeno quattro o cinque movimenti. Noi ne leggiamo solo i primi due, rimpiangendo il capolavoro interrotto, ma ammirati dalla forza narrativa della sua autrice, motivo non ultimo per leggerla.
Il libro è anche molto “attuale”, perché racconta di guerra, bombardamenti, esodi, sfollamenti, individui in fuga, parole d’ordine patriottiche, paure, ossessioni, destini dei popoli e destini dei singoli. Affronta temi importanti, insomma, e in quanto tale ambisce alla classicità, costruendo alcuni personaggi indimenticabili e facendo i conti con i padri-romanzieri della letteratura ottocentesca: Balzac, Dickens, Tolstoj, ne proteggono la stesura. Infine, è “utile” perché, leggendo gli appunti tratti dal diario di Irène Némirovsky, si entra nel laboratorio di una scrittrice capace di provare la pietas che solo i grandi possono permettersi (ascoltando quindi perfino le ragioni del nemico), ma anche di far ridere, di far piangere e di sorprendere, secondo il migliore insegnamento dickensiano, appunto. In quell’appendice compaiono vere e proprie lezioni di scrittura, ripensamenti e progetti elaborati nonostante la minaccia, e la consapevolezza, di una fine imminente. E’ un libro che ha una storia drammatica, commovente, intensa quanto quella che racconta. Vita e finzione, realtà della Storia e “menzogna” del romanzesco si rincorrono, si rispecchiano, collidono, s’infrangono.
Figlia di un banchiere ebreo la Némirovsky era già scappata dalla Russia sconvolta dalla rivoluzione del ’17 ed era approdata in Francia dove aveva avuto una carriera di scrittrice di successo. Prima di iniziare Suite francese ha scritto diversi romanzi (Il ballo, del 1930, uscito anch’esso da Adelphi), conduce un’esistenza brillante, è sposata e ha due figlie. Poi la Storia s’inceppa, e si ripete, terribilmente. Sarà proprio a quelle due bambine che il padre consegnerà il manoscritto del romanzo in veci della madre, affidandole dopo l’arresto suo e della moglie a una tata che le nasconderà per tutto il periodo della guerra, inseguite dalla polizia francese più che dai nazisti. Dopo il ’45 le ragazzine attenderanno per mesi il ritorno dei genitori davanti all’Hotel Lutecia dove, provenendo dalla Gare de l’Est, approdavano i sopravvissuti ai campi di sterminio. E per molti anni non avranno il coraggio di leggere quelle 400 pagine avute in eredità: “Lo feci”, ha detto Denise, la primogenita “solo quando i miei figli furono abbastanza grandi da reggere la vista di una madre che affrontava il suo dolore più grande”. Poi comincia a ricopiare il manoscritto, a mano, a macchina, col computer. E fra quelle pagine ritroverà molte delle persone che conosceva da bambina e che erano stati i modelli dei personaggi realizzati nel romanzo. Come i signori Péricand, prototipi della buona borghesia francese, conformisti, timorati di dio, ricchi e severi con la servitù.
O come lo scrittore Gabriel Corte, un’esteta wildiano che dovrà confrontarsi con indigenza e orrore. Come la ballerina che con astuzia e cinismo prova a sopravvivere. O come i piccolo-borghesi Michaud, gli anonimi umili, saggi e dolci, impotenti ma capaci di comprendere l’impossibile e cioè che i morti in guerra sono sempre esistiti. O come gli orfani che diventano sadici aguzzini (ecco Dickens), i più raffinati collezionisti che sotto le bombe pensano solo a incartare le loro porcellane (ecco Balzac). Come le aristocratiche bigotte e altere della provincia francese più profonda, gli ufficiali nazisti che sono capaci di tenerezze, le mogli con il marito al fronte che hanno bisogno d’amore e forse lo accetteranno dal nemico: una folla sterminata e migrante nella quale gli individui sono solo ombre che piano piano si fanno riconoscere. Nelle intenzioni dell’autrice i fili romanzeschi si sarebbero riannodati e molti di quei personaggi si sarebbero ritrovati a Parigi. Fino all’ultimo aveva sperato di esserci anche lei.
Irène Nèmirovsky
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