di Michela Murgia
Chi sta seguendo su La Nuova Sardegna il dibattito sulla vexata quaestio della letteratura sarda e delle sue lingue ricorderà che avevo già condiviso un articolo di Marcello Fois uscito un paio di settimane fa proprio in quelle pagine. Non avevo aggiunto niente di più o di diverso non solo perché consideravo già ampiamente dirimenti i suoi argomenti, ma anche per quella santa forma di rispetto per il mio tempo che mi induce a non sperperarlo dove non mi pare di vedere gli estremi per assistere a un cambiamento, quale che sia.
Di Marcello avevo elogiato infatti non solo la chiarezza del pensiero, ma anche l’ottimismo e la pazienza. Il dibattito era poi prevedibilmente proseguito con la replica di Diego Corraine (che potete trovare ripresa qui) e con molteplici polemiche in altri siti affini al pensiero nazional-monolinguistico di stampo ottocentesco. Marcello Fois chiude la questione inviandomi oggi per conoscenza la replica che ha scritto in risposta a Diego Corraine. Col suo permesso la rendo pubblica per completezza, ma soprattutto perché (che ve lo dico a fare) la condivido. Di mio aggiungo solo che mi sbalordisce la quantità di tempo che certuni perdono per difendere l’idea esclusiva di una – e una sola – letteratura sarda. Dietro a questo sforzo non riesco a non scorgere il tentativo di costruire il corredino di marcatori identitari che tanto sarebbe utile a contrabbandare l’idea nazionalista di una identità sarda altrettanto statica. Sono ben contenta di essere considerata inutile a questo riguardo, e sono pure conscia che la mia tensione verso un progetto di indipendenza senza nazionalismo (che non vuol dire senza lingua sarda) risulti indigesta e dura a comprendersi a chi ragiona solo secondo questi angusti termini. Se nonostante la loro passione per le complicanze organizzate non riescono a risolvere quella che a loro sembra una contraddizione, resta sempre il buon vecchio cubo di Rubik, che non delude mai.
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Caro Corraine
snobismo sarebbe stato fare quello che hanno fatto tutti gli altri e cioè ignorarti. Ma la mia natura me lo impedisce proprio perché, nonostante la vanità di cercare di convincerti di qualcosa che non vuoi capire, continuo a credere alla funzione insostituibile del dibattito. Il fatto che tu abbia deciso cosa merita il marchio DOC, e cosa non lo merita, non mette certo una pietra tombale sul discorso. Il fatto che tu ti sia autopromosso Presidente della Crusca Sarda, o in sardo, non significa che mi debba adeguare al tuo “ipse dixit”. Quindi partiamo dal chiarire che di Limba si parlerebbe meglio se ci fossero i presupposti tecnici aldilà di qualunque amatorialismo. In ogni caso io e te, caro Corraine, facciamo due mestieri completamente diversi: tu hai deciso di fare il tecnico e io sono stato dichiarato intellettuale, scrittore, dai lettori. Come a dire che uno rivendica una rappresentatività e l’altro quella rappresentatività se l’è conquistata con gli anni sul campo: Presidente della Crusca Sarda ci si può autoeleggere, ma scrittore si diventa per acclamazione. Due mestieri diversi dunque, che non si escluderebbero a vicenda se non fosse per questa tua ostinazione a dare per certi dati che certi non sono. Qualche tempo fa al Teatro Eliseo di Nuoro un migliaio di studenti delle superiori barbaricine, ha assistito a una versione in Limba di Nozze di Sangue di Federico Garçia Lorca, per la maggior parte di loro la paura principale era di non capire il testo. Alla fine della pièce sollevati sono stati felicissimi di aver capito tutto. Ora è evidente che c’è differenza tra conservazione e diffusione: quella che tu invochi è conservazione; quella che invoco io è diffusione. Per farlo è indispensabile tener conto dei fatti e della storia recente della nostra martoriata Regione. Bisogna cioè considerare che il sardo congelato che tu proponi è una lingua morta sul nascere. Il sardo contemporaneo, che esiste, per quanto tu voglia riportarlo in orbace, può parlare in Limba, la sua; in italiano e, possibilmente anche in inglese. Il sardo contemporaneo concepisce uno spazio che si è decisamente ampliato. Generazioni di sardi hanno conosciuto persino la sardità senza la limba e di questo non si può non tenere conto concludendo che sono semplicemente degli handicappati etnici. Noi, fuori dalla Crusca, di lingue ne frequentiamo almeno tre: il sardo, chi ce l’ha, l’italiano accademico imparato a scuola, e quello che il “giovanissimo” Ciusa Romagna chiamava italiano porcheddino. Come il companatico tra due strati di pane, quel sardo italianizzato, che tu colpevolmente ignori, è la manifestazione di una forza piuttosto che di una debolezza ed è l’ariete attraverso il quale si sfonda il portale dell’integralismo. Ti ho sentito in molti casi decantare le conquiste dei musicisti sardi che coniugano la tradizione e la contemporaneità, ora mi chiedo perché questo stesso sforzo non ti è chiaro per gli scrittori che fanno lo stesso, anzi che l’hanno fatto ben prima dei nostri meravigliosi musicisti. Non voglio pensare che questa differenza d’approccio dipenda dal fatto che sei il Presidente della Crusca Sarda e non un etnomusicologo. Ritornando ai ragazzi in teatro per molti di questi era la prima volta in assoluto che sentivano attivamente il nuorese su un palcoscenico. Che significa questo? Che nonostante anni di lavoro non siete riusciti nemmeno a liberare le nuove generazioni dalla paura della Limba? O che il vostro principale intento era di farvi finanziare per inventare un aborto linguistico di cui diventare sacerdoti monomandatari? I fatti dicono che avete lavorato malissimo e che una pagina qualunque di un autore sardo, o sardignolo, contemporaneo ha fatto per la Limba molto di più di quanto avete fatto voi in anni di uffici ed emolumenti. Se tu con franchezza ammettessi che il compito che vi siete dati è di conservare un apparato altrimenti disperso, nessuno potrebbe avere niente da dire, se non domandarsi perché mai si debbano perdere tante energie per costruire una lingua mummificata, piuttosto che favorire uno studio e una catalogazione seria, professionale, dell’esistente. Anche fare gli esempi per sentito dire, senza sostanza, non è una buona cosa, caro Corraine: fai passare Atxaga, Riera, Cabré, Singer, Yehoshua per sacerdoti di un impeto conservativo che non hanno, tutti costoro le lingue le hanno fatte dialogare e si sono guardati bene dall’ abbracciare sistemi costruiti a tavolino. Se sapessero per cosa li fai passare probabilmente, con giusto snobismo, nemmeno ti risponderebbero, come dovrei fare io, perché gli accademici sono guardiani, ma gli scrittori sono ladri.