francesca albanese ONU
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Il genocidio in corso nella Striscia di Gaza non è solo una tragedia umanitaria, ma anche un’opportunità economica per un’esclusiva classe politico-finanziaria globale. Parlo di esclusiva proprio per intendere il godimento di un qualsivoglia bene o pretesa da cui ogni altro è escluso e/o si spinge ad esserlo. Compreso i diritti.
Secondo quanto riportato dal Financial Times, esiste un progetto segreto – sostenuto da investitori israeliani, società di consulenza come Boston Consulting Group e istituzioni legate a figure come Tony Blair – per trasformare Gaza in una “Riviera del Medio Oriente”, un paradiso per il turismo e la speculazione immobiliare, a patto che venga “ripulita” dalla popolazione palestinese. Che la dice lunga sul meme apparso sul profilo di Trump di qualche tempo fa.

Il genocidio in atto è redditizio. E molto.

Secondo la relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, che ha pubblicato un rapporto dal titolo “Dall’economia di occupazione all’economia del genocidio”, grandi aziende occidentali – dalle Big Tech alle industrie belliche, dalle banche alle università – stanno traendo profitti enormi dalla devastazione della Palestina. L’occupazione israeliana, che durava da decenni, è stata un banco di prova per armi, tecnologie di sorveglianza, software di intelligenza artificiale e strategie di controllo sociale. Con il genocidio, questi profitti sono aumentati.

Le aziende coinvolte sono molteplici. Colossi tecnologici tra cui Microsoft e Google, tanto per citarne un paio, insieme a giganti militari come la Lockheed Martin, aziende meccaniche come Caterpillar o automotive come Hyundai e Volvo, sono accusate di aver fornito tecnologie, strumenti e know-how utilizzati per la distruzione di Gaza. L’intelligenza artificiale è diventata uno strumento di morte, con programmi usati per selezionare obiettivi umani da colpire con scarsa o nessuna supervisione umana.

Il rapporto suggerisce che, parallelamente, le istituzioni finanziarie – banche come Barclays e BNP Paribas, fondi pensione, assicurazioni, università – continuano a investire in Israele e nelle aziende che collaborano con il suo regime di occupazione, malgrado le chiare indicazioni legali da parte della Corte Internazionale di Giustizia e delle Nazioni Unite. Il settore privato si trincera dietro giustificazioni legali e scarica la responsabilità sugli Stati, mentre continua a operare nelle “aree grigie” del diritto internazionale che esso stesso ha contribuito a creare.

La situazione è aggravata dall’interconnessione tra governi occidentali e mondo imprenditoriale. La politica estera del Regno Unito e degli Stati Uniti è sempre più allineata agli interessi di multinazionali e settori industriali che traggono beneficio dal mantenimento di Israele come potenza militare e tecnologica dominante nella regione. In cambio, queste aziende finanziano campagne elettorali, think tank e media compiacenti. Il caso di Keir Starmer, leader laburista britannico, che ha messo al bando Palestine Action per pressioni dell’industria bellica israeliana, ne è un esempio lampante. Anche negli Stati Uniti, sia i Democratici che i Repubblicani ricevono ampi finanziamenti da donatori legati a Israele. Le Big Tech hanno un impatto significativo sulla cultura, sui comportamenti sociali e sulla diffusione delle informazioni su come influenzano l’opinione pubblica, le scelte di consumo e le interazioni sociali.

E a proposito di cultura. Le università occidentali non sono estranee a questo meccanismo. Non solo investono finanziariamente nelle aziende coinvolte, ma collaborano anche in progetti di ricerca con l’esercito israeliano e con aziende di tecnologia militare. Quando gli studenti cercano di denunciare queste complicità, le loro proteste vengono represse e bollate come antisemite, in un uso strumentale dell’accusa di antisemitismo per proteggere un sistema economico costruito sull’oppressione. Vedi le recenti pressioni sulle università americane da parte del loro presidente.

Secondo Albanese, si tratta di un ecosistema di illegalità: una rete globale in cui interessi economici, potere politico e violazione dei diritti umani sono intrecciati in modo indissolubile. Le aziende, per loro natura obbligate a massimizzare i profitti, tendono a comportarsi in modo psicopatico, come notano studiosi come Joel Bakan e Noam Chomsky: prive di empatia, disposte a mentire, manipolare e distruggere, se ciò porta vantaggi economici. Il sistema di competizione globale rende incredibilmente difficile per un’azienda comportarsi diversamente. Molte aziende, in specie quelle citate precedentemente, competono sui mercati finanziari e sul rimborso delle stock option prima ancora che sui sistemi di economie di scala basate sulla produzione. Va da sé che la loro struttura interna impone loro di non fare nulla che possa compromettere i profitti. È forse una semplificazione eccessiva trasformare questo fatto in una narrazione del buono e del cattivo e tuttavia le aziende sono in un certo senso obbligate ad agire in questo modo (anche) per via dei sistemi legislativi che regolano le loro attività patrimoniali dentro le quali sono inserite.

Uno sguardo al passato è necessario mentre la situazione di Gaza rappresenta anche una prova generale; un modello per guerre future. Da una parte, si affama un popolo assediandolo e stremandolo così come accadeva nel medioevo. Dall’altro, le tecnologie sviluppate e testate in Palestina saranno probabilmente impiegate in conflitti più vasti, come quelli ipotizzati contro la Cina o altre rivalità geopolitiche. La violenza di Israele viene così “normalizzata”, per aprire lo spazio legale e morale necessario a nuovi massacri. Gaza, dunque, non è solo una tragedia contemporanea, ma un’anticipazione del tipo di mondo che ci attende se il potere delle multinazionali continuerà a crescere indisturbato.

In conclusione, ci troviamo di fronte a un sistema globale in cui il profitto conta più della vita umana, e in cui Gaza è diventata un simbolo estremo della deriva dell’Occidente: da promotore dei diritti umani a complice e beneficiario della loro sistematica violazione. Una deriva che può e deve essere arginata solo con il riconoscimento dello Stato della Palestina come passaggio obbligato. Bene, dunque, la recente posizione di Macron che ha dichiarato di voler riconoscere lo stato della Palestina, dopo il coraggioso gesto di altri dieci stati europei. (Italia, se non ora, quando?).

Finisco. L’autrice invita alla mobilitazione: cause legali, boicottaggi, sanzioni e pressione internazionale contro le aziende complici del genocidio e i governi che li proteggono. Perché, come ammonisce Albanese, “il genocidio non si ferma perché è redditizio”.

***

Per BookAvenue, Michele Genchi

fonti:

Francesca Albanese, From economy of occupation to economy of genocide, ONU, 16- June-10 July Human Right Concile,
Financial Times, Tony Blair’s staff took part in ‘Gaza Riviera’ project with BCG,
James Hoggan, AlterNet, Noam Chomsky and Joel Bakan, Psychopathic propaganda machines we call corporations.


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