Gli scritti di “La vita non basta” escono dal baule da matrimonio di Fernando Pessoa che conteneva oltre ventisettemila documenti acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Lisbona. In quello che è diventato un’autentica icona letteraria, Pessoa teneva le sue carte e quelle dei suoi doppi, Bernardo Saores, Alvaro de Campo, Ricardo Reis, Mário de Sá-Carneiro, Almada Negreiros, Armando Córtes-Rodriguez, Luis de Montalvor, Alfredo Pedro Guisado, ciascuno dotato di una propria storia e fisionomia indipendente. Per loro egli costruiva passati e presenti alternativi, progettava libri che non avrebbe mai scritto, inventava professioni prese dal mondo reale. Erano i cosidetti eteronimi, ossai gli autori fantasmi che non tanto cavava dal proprio interno, ma convocava a sé con «un tratto profondo d’isteria», per la sua tendenza organizzata e costante «alla spersonalizzazione e alla simulazione».
Non si trattava di abbracciare, stipati, quanti più individui possibili, il mondo intero. Al contrario, con una gestione frenetica della pratica scrittoria cui corrispondeva una biografia a livello zero di “normalità” di scrivano sognatore, imparentato con il Bartleby di Merville, di «impiegato di concetto» defilato e rinunziatario, di un travet a misura di crepuscolare italiano, espelleva da sé la popolazione dei fantasmi, dandogli un nome, uno stato civile, una carriera autonoma per liberarserne e arrivare al vero, profondo desiderio: essere un luogo vuoto. Sedotto dal molteplice e avido dell’impossibile, nella sua ansia di totalità trasferiva non solo biografie ed esperienze plurime, ma anche stili diversi.
La vita non basta, in uscita da Vertigo, a cura di Zetho Cunha Goncalves, attinge a quel “vuoto”, a quel brulichiò di diversità servendosi non di un eteronimo, di un autore fittizio (o di uno pseudoautore) con una sua fittizia personalità, ma dando voce al più raro ortonimo. Infatti il libro raccoglie per la prima volta in modo organico un gruppo di prose che, a sua firma, Pessoa ha distribuito in vita, tra riviste e giornali. Sono racconti, favole e altri testi fantastici a cominciare da quella paradigmatica e breve autobiografia intellettuale dello scrittore che è “Il banchiere anarchico” e da “Il marinaio”, dramma anch’esso assai conosciuto, leggibile come racconto su indicazione dello stesso Pessoa.
Accanto ad essi, si aggiungono una sequenza di altri sei racconti completi che Pessoa aveva intitolato “Favole per le nazioni giovane” (che contine l’inedito, “Il segreto di Roma”) e altri tre, “Cronaca decorativa II”. “Soares e Pereira” e “La pescivendola e la logica”. Circola in questi testi uno dei tanti volti del poeta “fingitore”, con quella sua grana lieve e quasi impalpabile di umorismo, assurdo, ironia. Quasi una «suprema forma di resistenza e lotta all’abiezione, alla meschinità e a alla “vile tristezza” della “quotidianità reale”». Con quel cappello magrittiano a tesa larga e la mano sospesa ad anticipare domande, il ritratto in bronzo di Pessoa continua ad ipnotizzare non soltanto gli avventori del Café A Brasileira di Lisbona.