RISORGIMENTO. Asburgo: benefici? Ma con la forca. Unità fatta da pochi illuminati? Ma anche da carrettieri e preti di campagna. Cospiratori folli? Osannati nel mondo
Luoghi comuni da sfatare: 1. Era meglio l’Austria. 2. Il patriottismo non era popolare. 3. I Mazziniani erano esaltati estremisti.
Come accade per tutti gli eventi epocali che segnano la storia di una nazione, anche il Risorgimento si ritrova fisiologicamente a essere gravato dal peso di luoghi comuni tanto numerosi quanto duri a morire. Di questi, tre in particolare esigono una confutazione critica che si pone come presupposto essenziale per poter collocare in una corretta prospettiva le vicende da cui nacque l’Italia unita; e ciò a maggior ragione nel suo centocinquantesimo anniversario.
PRIMO dato da considerare è quello dell’aura edulcorata che nel tempo si è andata materializzando intorno al nemico storico della nostra indipendenza. Premesso che l’Austria contemporanea al moto risorgimentale con il suo armamentario di forche e bastonature era assai lontana dal livello di sviluppo sociale e civile raggiunto ai primi del Novecento e tenendo ben presente che i valzer, le crinoline e la bella principessa Sissi non devono far dimenticare una realtà comunque segnata da molteplici ingiustizie e contraddizioni, è fuor di dubbio che l’amministrazione austriaca, in termini di buon governo, offrisse ai sudditi vertici di rara eccellenza.
Questo dato di fatto tuttavia, decontestualizzato e riproposto in termini meramente nostalgici, ha in sé tutta la povertà morale e intellettuale dell’affermare, per esempio, che nell’Italia fascista le cose funzionavano meglio di oggi o che nella Russia sovietica tutti avevano una casa e un lavoro.
Non è ammissibile cioè lodare i pregi della dominazione asburgica senza ricordare che il loro prezzo erano la privazione della libertà e la sottomissione a un potere fondato sulla sistematica negazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli.
SECONDA questione è quella di un Risorgimento lontano dal popolo. A tale riguardo va osservato in linea di massima che a fare la storia, da che mondo è mondo, sono state le minoranze, avanguardie più o meno buone e illuminate, convinte di tracciare un sentiero di miglioramento e di evoluzione per il loro gruppo sociale, per la loro nazione o per l’umanità in generale.
Senza il lievito di queste avanguardie, le grandi masse, troppo occupate a risolvere i problemi della quotidiana sopravvivenza o a preservare il quieto vivere con pigro disimpegno, sono sempre state ineluttabilmente destinate a restare sullo sfondo.
Non si capisce dunque perché il solo Risorgimento dovrebbe scontare la terribile colpa di esser stato promosso e guidato da una minoranza la cui azione, per inciso, si ispirava a irrinunciabili ideali di giustizia e libertà.
Ciò detto va comunque chiarito, e una volta per tutte, che la nostra riscossa nazionale non fu solo opera di sparute élites ma vide anche il fattivo e convinto concorso di un popolo che, quando se ne offrì l’occasione, volle e seppe essere in prima linea nella battaglia per spezzare il giogo straniero: dall’epica resistenza di Milano, Brescia, Roma e Venezia, dove l’insurrezione prese il via tra gli operai dell’Arsenale, ai montanari cadorini che guidati da Pier Fortunato Calvi bloccarono la via delle Dolomiti alle armate austriache, dalle migliaia di volontari meridionali che si aggregarono alle camicie rosse di Garibaldi, da Calatafimi al Volturno, fino alle altre decine di migliaia che nel 1848, 1859 e 1866 accorsero da tutta Italia per guadagnarsi combattendo il diritto di essere finalmente «fratelli su libero suol».
Quanto ai teorici a oltranza del Risorgimento elitario, sarebbe interessante che spiegassero da quali ristrette cerchie intellettuali ed economiche provenissero l’oste Ciceruacchio, il tappezziere Amatore Sciesa, Giovanni Zambelli, Pietro Frattini e Bartolomeo Grazioli, lo scrivano, il figlio di un carrettiere e il parroco di campagna saliti sul patibolo di Belfiore, Giovanni Minoli, l’eroico ragazzino delle campagne di Voghera consegnato alla storia, anonimo, dalle pagine deamicisiane della Piccola vedetta lombarda, e ancora Toffin, il pescatore Giuseppe Sugrotti, e Picinin, il vetturale Efrem Begatti, i due popolani che soccorsero e misero in salvo il patriota Felice Orsini, feritosi durante l’evasione dal castello di San Giorgio a Mantova.
TERZO tema infine, recentemente tornato alla ribalta anche sull’onda di nuove uscite editoriali e cinematografiche, è quello relativo all’utopica inutilità, se non addirittura dannosità dell’azione insurrezionale condotta dai patrioti che facevano capo a Mazzini, e alla deformazione subita dall’immagine di questo personaggio, sempre più costretta nel torvo cliché del cattivo maestro. Per liquidare quest’ultima come poco più di una facezia e per cogliere la potenza universale e senza tempo di un pensiero politico che propugna una umanità di fratelli liberi ed eguali è sufficiente uno sguardo al giuramento della Giovine Italia, alla Costituzione romana del 1849, o alle poderose pagine dei Doveri dell’uomo.
Quanto al resto, anche volendo ridurre i moti mazziniani a improvvide follie di visionari, è un dato di fatto che senza l’infaticabile attività del comitato organizzato da Mazzini nell’esilio di Londra, senza le cartelle del prestito mazziniano, i tentativi rivoluzionari del 1853 a Milano e in Lunigiana, senza il sacrificio dei fratelli Bandiera, dei Martiri di Belfiore, di Calvi e Pisacane la questione dell’indipendenza italiana non sarebbe stata sotto gli occhi dell’Europa e con esiti così proficui. Così come, per ammissione dello stesso Cavour, senza quelle «teste calde» la causa italiana non avrebbe potuto essere propugnata con tanto successo al congresso di Parigi, là dove, ammesso al tavolo delle grandi potenze dopo la partecipazione alla guerra di Crimea, il primo ministro piemontese avrebbe consolidato le basi per gli eventi del 1859-’60. Il difficile rapporto con la memoria di Mazzini e dei suoi seguaci del resto è ben comprensibile se si pensa al progressivo scollamento tra la realtà presente e la mistica intransigenza del loro credo patriottico, il rifiuto per il facile compromesso e, più in generale, il progetto di rinnovamento etico e morale che era parte imprescindibile della lotta mazziniana per la riscossa nazionale. Un progetto che l’Italia di oggi rivela penosamente in tutta la sua desolante incompiutezza.