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Il mio primo Festivaletteratura è stato quindici anni fa. Presi un treno per Mantova dopo aver studiato febbrilmente l’itinerario su quei libretti che poi sono spariti con l’avvento di internet. Ero appena maggiorenne e dissi a mia madre che sarei tornata nel pomeriggio, anche se in verità avevo già prenotato una stanza. La sera infatti telefonai per dire che mi sarei fermata una notte, ma le notti diventarono presto quattro… e sul mio vecchio Quaderno dei Pensieri ci sono ancora l’autografo di Fosco Maraini, una foto sbiadita di Jhumpa Lahiri (lo scotch ha ormai trapassato la pagina) e un articolo su David Grossman. E poi pagine fitte di citazioni ed emozioni diciottenni, fra cui alcuni curiosi appunti sul suono della voce di Grossmann quando parlava in ebraico. >>

 

 

Insomma, tutti i giovani scappano di casa almeno una volta nella vita, chi per un motivo e chi per un altro. Ma io sono fuggita per andare a Festivaletteratura e spero che oggi questa credenziale vi basti. E nonostante quest’anno il festival cada nei giorni in cui perdo la mia prima, grande maestra di letteratura, vado ugualmente all’incontro su Christa Wolf che avevo prenotato. Per quelli come me infatti la letteratura è il filtro, la lente, la spiegazione. E’ quella carezza che ci restituisce l’essenza dell’animo e delle dinamiche umane.

L’intimo Teatro Bibiena é gremito. Coordina la filosofa Annarosa Buttarelli, in filosofici capelli grigi e camicione bianco. Accanto a lei, salgono sul palco la germanista Anna Chiarloni, la giornalista (e nipote di Christa Wolf) Jana Simon, l’interprete della Simon e l’attrice Anna Bonaiuto (L’Amore Molesto, Il Caimano, Mio fratello è figlio unico). Assenti per motivi di salute sia il marito della scrittrice Gerhard Wolf che Anita Raja – superba traduttrice italiana della Wolf ma famosa più che altro per essere l’ultima tessera rimasta in piedi nella “caccia all’uomo” su Elena Ferrante.

La voce di Anna Bonaiuto apre con grazia insostenibile quello che sembra più che altro un “ricordo” di Christa Wolf. La scrittrice delle “voci” ritorna infatti nel timbro caldo dell’attrice, che ci costringe al vuoto per poi colmarci lentamente. Le immagini sono quelle intense e dolorose dell’incipit di Riflessioni su Chista T: “Riflettere – riflettere su di lei. Sul tentativo di essere se stessi. […] Perché sento che svanisce. Nel suo cimitero di campagna giace sotto i due cespugli di biancospino, morta accanto ai morti […]. Abbandonata a se stessa, lei se n’è andata, questo era il suo modo di fare. All’ultimo minuto ci si ricorda di occuparsi di lei.[…]. Nell’ultima lettera che le scrissi – sapevo che era l’ultima, e non avevo imparato a scrivere ultime lettere – non seppi far altro che rimproverarla perché lei voleva – o doveva – andarsene”.

Dio mio, ma proprio qui dovevo capitare?! Mi gira la testa. Ma no, ma no. In verità è esattamente QUI che volevo venire da quando, il mese scorso, ho letto Cassandra. Penso alle parole della profetessa di fronte alle porte di Micene – Io resto – e allento la presa sui braccioli. Tiro fuori il taccuino. Non mi sentivo ancora pronta a parlarvi di Christa Wolf ma a quanto pare, in uno strano modo, arrivo a farlo.

La filosofa Annarosa Buttarelli apre il dibattito definendo la Wolf come una “voce” che ha accompagnato i momenti più gravi del secolo scorso. La domanda chiave a cui cercherà di rispondere assieme alle altre ospiti sembra essere: che cosa può insegnarci, oggi, Christa Wolf? Secondo la filosofa, a differenza di molti intellettuali, Christa non aveva la parola pronta. Il suo punto di partenza era sempre un “non lo so”, uno sforzo di cercare un senso prima di fornire giudizi. “All’epoca io facevo parte”, dice la Buttarelli, “di quel movimento luminoso del femminismo del pensiero, ma Christa è arrivata fra noi a mettere a soqquadro ogni cosa così come ha messo a soqquadro la vita dei fedeli alla DDR, sebbene non l’abbia mai abbandonata”. Autenticità dunque – nella vita e nelle relazioni – sembra essere il primo insegnamento che questa scrittrice ha lasciato dietro di sé.

E in questo incontro che si potrebbe chiamare anche Christa Wolf. Voci, la voce di Anita Raja mancherebbe se la traduttrice non avesse inviato una bella lettera che la filosofa legge interamente al pubblico. Si tratta di un elenco, un testo che si sforza evidentemente di cogliere l’essenziale in una lunga e profonda relazione tra scrittrice e traduttrice. Il primo dei punti toccati è ancora la ricerca di senso in ogni circostanza, unita alla scelta di vivere nel tempo e nel luogo che ci è stato dato in sorte (“Io resto”). La Raja definisce poi l’idea di letteratura della Wolf: una testimonianza dell’esistenza ma anche la voce della necessità umana di non abbandonare l’utopia, il bisogno irrinunciabile di inventare una vita diversa. Inoltre, i personaggi femminili della Wolf sono fuor di dubbio l’espressione di un “apprendistato al NO”. Sono donne che seguono un percorso di identità che parte dalla subalternità al potere per arrivare fino all’identità, alla libertà, al raggiungimento di una voce autonoma (“Parlare con la mia voce: il massimo. Di più, altro, non ho voluto”).

Ma se la germanista Anna Chiarloni si addentra nella complessità stilistica, simbolica e storica del lavoro della Wolf, è la voce della nipote quarantaquattrenne Jana Simon che più di ogni altra cattura il cuore del pubblico. Il suo libro Sei dennoch unverzagt (Siate impavidi, malgrado tutto) racchiude sei conversazioni avute con i nonni Christa e Gerhard Wolf tra il 1998 e il 2012 (nel 2012 solo col nonno, perché Christa muore di leucemia nel 2011). Conversazioni che toccano i grandi temi del Novecento attraverso le domande di una ragazzina ai suoi nonni. Per esempio, perché siete rimasti? “C’era un periodo in cui tanti nostri amici lasciavano la DDR. Noi eravamo in macchina, io e tuo nonno. Guardavamo l’atlante chiedendoci: dove potremmo andare? Ma non siamo riusciti a individuare nessun altro luogo che potessimo sentire nostro”. Io appartenevo, aggiunge Jana, alla generazione della distruzione della DDR, mentre i nonni avevano collaborato alla costruzione di quel mondo. Abbiamo parlato molto di come la politica era entrata nelle loro vite e la nonna mi diceva spesso: “la tua generazione è apolitica Jana, e per questo è noiosa!”. Solo che negli ultimi anni, ricorda Jana, la nonna era impressionata dagli eventi internazionali e aveva ripreso quel suo “non lo so”. Diceva: “Jana, ti capisco, anche io non so proprio cosa pensare”. Ma oggi sarebbe un po’ diverso, conclude la giornalista. Oggi la nonna direbbe nuovamente che la nostra testimonianza politica è fondamentale. E anche la lettera del marito Gerhard Wolf si conclude con parole che invitano a riprendere in mano le opere di Christa Wolf in quest’ottica: “La sua voce racconta un pezzo di storia europea che non bisognerebbe dimenticare anche – e soprattutto – per questo nostro misterioso oggi. Bisogna riportarla alla luce perché si possa vederla. E se non ora, quando?

Uscita dal teatro mi fermo a prendere un caffè sotto un portico. Davanti a me passa un ragazzo di non più di quindici anni, la mascella già quadrata sotto lo sguardo ancora bambino. Lo fisso incredula, ha una maglietta nera che recita a grandi lettere bianche: “THE PAST IS PAST”. Mi chiedo se sia l’immagine di un inconsapevole oggi o se forse… abbia ragione lui. Ripenso a quel passo di Trama d’Infanzia, a quell’altra verità uguale e contraria, nera su bianco: Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stanchiamo e agiamo come se ci fosse estraneo”. Sono confusa ed è ormai la sera quando decido di riaprire le pagine di Cassandra e finalmente il mio cuore si placa: “Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere”.

 

Per BookAvenue, Silvia Belcastro

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