Sdraiata a letto, ecco il momento in cui Isabel Dalhousie, filosofa e direttrice della «Rivista di Etica Applicata», rifletteva sulle azioni che compiamo. Aveva il sonno leggero. Charlie, suo figlio di diciotto mesi, si faceva delle dormite profonde e, ne era sicura, felici; Jamie era più o meno una via di mezzo. Eppure Isabel non faticava a addormentarsi. Quando decideva di dormire, non doveva far altro che chiudere gli occhi e finiva per assopirsi senza troppi problemi. Lo stesso capitava se si svegliava nel corso della notte, oppure durante le ore malinconiche che precedono l’alba, quando corpo e spirito arrivano a toccare il punto di minor attività. Le bastava ricordare a se stessa che non era il momento per mettersi a rimuginare e poco dopo riusciva a riaddormentarsi.
L’arte perduta della gratitudine



Stavros Topouzoglou ha vent’anni e una valigia piena di sogni. C’è qualcosa in lui che è al tempo stesso fragile e intenso, tenue ed energico. 
Magistrale secondo romanzo di Philipp Meyer, Il Figlio è un poema epico dalla grande potenza narrativa che sorprende. Meyer racconta la storia del Texas attraverso una famiglia di disadattati e reietti. Il figlio è un libro sconcertante incentrato sui personaggi e si legge come tre autobiografie che variano di continuo il tono, lo stile e la voce. 
La pioggia cade a sprazzi, sottile e imprevedibile.
Erano scatoloni piuttosto comuni: vecchi contenitori pieghevoli di cartone ondulato, non diversi da quelli che prendono polvere in milioni di cantine e solai. Ultimi, stanchi residui del patrimonio del nostro compianto padre, erano arrivati nell’assolata casa di collina di mio fratello Nick, a Los Angeles, nell’autunno del 1994. Stranamente, provenivano dalla Germania. Nostro padre, Bernard Goodman, era morto a Venezia alcuni mesi prima — il giorno dopo il suo ottantesimo compleanno — mentre nuotava nel mare Adriatico. La sera precedente aveva gustato una cena squisita all’Harry’s Bar. Cipriani, il proprietario, gli aveva offerto una bottiglia di grappa della casa. Rinomato atleta ai tempi dell’università, mio padre era sempre rimasto fisicamente attivo — non fu il suo corpo che la vita spezzò — e, nonostante l’età, era un abile nuotatore. Secondo le autorità, ebbe un colpo apoplettico o un attacco di cuore e perse coscienza in acqua. Quando Eva, la sua compagna già da anni, gridò e agitò le braccia dalla riva, i bagnini si tuffarono in mare e lo trascinarono fuori, ma era troppo tardi. Fu dichiarato morto per annegamento. 
“Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo. Vai e guarda dietro i monti…”, così scriveva Rudyard Kipling.
A Parigi si è subito assorbiti da un trambusto di folle indaffarate, di colori altisonanti e neon radiosi. Si passa dalle insegne verdi delle farmacie alle carote rosse dei tabaccai fino all’abbagliante scintillio luminoso. “Paris n’est pas une ville, c’est un pays”, scriveva Francesco I a Carlo V, e infatti Parigi è un mondo sfaccettato e vario che offre immagini di regola inconsuete, straordinarie. Un po’ come essere a Natale in piena estate…
La storia bulgara fornisce un terreno fertile per questa raccolta di racconti d’esordio di un giovane quasi trentenne emigrato dalla Bulgaria negli Stati Uniti nel 2001 per frequentare il college.
La Bulgaria non è né Occidente e né Oriente, ma qualcosa di forte che esiste in ogni bulgaro. Forse per questo lo stile di scrittura di Miroslav Penkov è chiaro e sorprendente, pieno di calore e di saggezza. Uno stile che spiazza e confonde come pochi.
L’acclamato film “Tra le nuvole” di Jason Reitman è tratto dal romanzo “Up In The Air” di Walter Kirn, pubblicato nel 2001, poco prima dell’11 settembre e quasi subito sparito dalla circolazione.