Chissà perché, quando si discutedi narrativa ‘gialla’ (definizione di comodo, filologicamente non correttissima, che include anche il ‘noir’, il ‘poliziesco’, l”hard boiled’ e tutti i generi e sottogeneri affini), salta sempre fuori la definizione: «E’ arrivato il Montalbano…» con annessa provenienza cittadina. Ecco quindi il ‘Montalbano fiorentino’, ‘bolognese’, ‘perugino’, ‘spezzino’… Nel caso che analizziamo siamo in presenza, secondo questa vulgata un po’ stucchevole, del ‘Montalbano romano’.
Inciso per chiarir ancor più il concetto: quando eravamo più giovani andava di moda dire che Camilleri era il ‘Montalbàn siciliano’ e oggi, che siamo invecchiati, leggiamo come il grandissimo Markaris sia ‘il Camilleri greco’. Entravano in campo altre variazioni: Montalbano era, ad esempio, il ‘Pepe Carvalho siciliano’.
Invece, riteniamo più corretto sottolineare la specificità dello scrittore, descrivere, sia pure per sommi capi, i protagonisti, individuare i caratteri fondanti della psicologia del commissario in questione (nel nostro caso Ottavio Ponzetti), illustrare il ‘contesto’ e capire perché presenta certe caratteristiche. Francamente una faticaccia. Una piacevolissima faticaccia.
Ogni autore, ogni romanzo ha infatti sue peculiarità e metter mano a saggi di letteratura comparata spicciola ci interessa assai poco. Oggetto della nostra breve analisi sono tre romanzi di Giovanni Ricciardi, 43 anni, professore di greco e latino in un liceo classico romano. Uno scrittore che: a) mostra di conoscere assai bene Roma; b) ne individua i caratteri, diciamo così, ‘fondanti’; c) sfata luoghi comuni sulla città ‘solare’ (molte, invece, le zone d’ombra) e ‘accogliente’; d) offre un quadro toponomastico perfetto, nel senso che il lettore (esperto di cose capitoline o meno) cattura immediatamente le pennellate paesaggistiche e bozzettistiche facendole proprie.
Il protagonista dei tre romanzi in questione («I gatti lo sapranno», «Ci saranno altre voci», «Il silenzio degli occhi») è Ottavio Ponzetti, preparazione ‘classica’ (qui la nota autobiografica è evidente), mente deduttiva, pieno di dubbi (e questo ci pare il tratto più interessante e maggiormente riuscito), molto ‘umano’, con qualche incertezza sulle sue scelte di vita (in «I gatti lo sapranno» pensa a un amore che fu con note di struggente nostalgia), buon padre e dimostrazione lampante di quanto sia difficile esserlo, amato da una moglie paziente e giudiziosa. Le figlie, si diceva. C’è la maggiore, Gisella e la minore, Maria. Una Maria che, sempre ne «I gatti», «frequenta il quinto ginnasio e non è una cima come si dice qui a Roma», giudizio che poi, specie nel «Silenzio degli occhi», ci pare venga nettamente ribaltato dai fatti.
Tra le figure di primissimo piano, impossibile non citare Mario Iannotta, sparring-partner del commissario, «l’ispettore di fiducia», che parla un romanesco vero, che è un ottimo poliziotto, un po’ ignorante, ma tanto, tanto umano e che, quando diventa padre, accentua la sua umanità: non male le pagine in cui Ricciardi, con vena comica ineccepibile, descrive il tentativo di ‘parlare italiano’ perché il figlio non abbia un accento come quello paterno.
Eppure, banale constatazione ma è impossibile non scriverla, la vera protagonista è Roma. Una città che, per chi l’ha vissuta e la vive, ha qualcosa di irripetibile nel suo perenne caos. La sua capacità di accogliere. La sua luce (solo a Palermo è più splendidamente abbagliante). Una certa apparenza cinica che poi, invece, impari a riconoscere per quel che è davvero: l’incapacità di prendersi troppo sul serio. Il suo essere frizzante e indolente al tempo stesso e molto altro ancora. Ricciardi è bravo assai nella sua opera di ricostruzione della parte nascosta (che esiste, credeteci) e oscura. Non stiamo parlando di cronaca nera (in fondo, resta tra le metropoli più sicure al mondo), ma di una qual certo ‘lato nascosto’ che rende la Città Eterna luogo di misteri, di complotti, di intimi drammi familiari difficilmente risolvibili perché indecifrabili.
Altro elemento da sottolineare è lo stile. Evidentemente, Ricciardi, conoscendo il greco, s’è ispirato all’asciutto Senofonte… Caldo nel descrivere i sentimenti, ma degno delle parole di un Codice civile per la secchezza e, soprattutto, per la mancanza di frasi fatte. Ci teniamo a sottolinearlo perché recentemente ci è capitato di leggere un altro giallista italiano che usa espressioni del tipo «fecero l’amore con studiata lentezza».
Sempre a proposito di una narrazione fuori dagli stereotipi è interessante sottolineare come l’aspetto gastronomico – così di moda dopo gli straordinari successi di Montalbàn e Camilleri (i loro romanzi e sceneggiati sono zeppi di ricette, cibo e vino: addirittura Carvalho soffre di gotta) – sia marginale.
Dei tre romanzi che abbiamo letto, ovviamente, non possiamo rivelarvi per intero la trama, né tantomeno il finale per non uccidere la suspence. Però vi diciamo che: «I gatti lo sapranno» (romanzo d’esordio) narra le vicende, liricamente dolorose, della ‘sora Giovanna’, gattara. In un complicato intreccio di misteriose vicende scandite dalla Storia si arriverà a un finale che dimostra (espressione abusata ma sempre efficace) l’assoluta ‘banalità del male’. Pennellate d’autore ci portano tra vie, vicoli e piazze del (fu?) magico quartiere Esquilino.
In «Ci saranno altre voci», la vicenda ruota tutta intorno alla scomparsa di un professore. Dei tre, ci sembra il più riuscito: se non fosse per timore di esagerare non esiteremmo a definirlo una pietra miliare, un qualcosa che certamente resterà. Colpi di scena a ripetizione e una sottile malinconia gli elementi che caratterizzano la cifra narrativa di Ricciardi. Il commissario Ponzetti è stato trasferito ai Parioli: lo scenario totalmente diverso tra Esquilino e il ‘quartiere-bene’ è tratteggiato con rara maestrìa.
Infine, «Il silenzio degli occhi» che ha come sfondo la Roma del dicembre 2008 flagellata dalla pioggia, minacciata dal Tevere, percorsa dall’inquietante vicenda di un bambino sordomuto e di una madre alla ricerca della felicità con un’inquietante presenza dei servizi segreti italiani e non. Il bimbo è la figura chiave, Ponzetti e Iannotta duettano alla grande. Mentre un po’ forzato è lo spione cattivo che invita Ponzetti in una sala-giochi sull’Appia.
Ultimo appunto riguarda l’editore, Fazi. Il quale, per l’ennesima volta, centra, alla grande, il bersaglio. Bravo, non c’è che dire. Quando si crede a qualcosa i risultati arrivano. Ci sembra questa la (benemerita) linea editoriale. Speriamo continui così.