Ho terminato da poche ore il saggio in forma narrativa 1947 e non riesco a digerirlo, continuo a rimuginarci. È palese che il libro non mi ha lasciato indifferente. Se dovessi usare un aggettivo per definirlo direi: interessante. Ma sarebbe nascondere l’inquietudine che ha mi ha trasmesso. Ecco, la biografia di quell’anno del dopoguerra ti tramette le macerie nell’animo. Non perché descrive le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale, ma perché inocula l’assenza di speranza di quel libro. Non c’è speranza, né spazio per un mondo migliore. Sarò un pessimista, ma questo è ciò che ho ricavato dal libro. Continuo a rimuginare su quello che ho letto e vedo nella cronaca attuale quello che succedeva allora protrarsi senza sosta e senza speranza di soluzione. Ecco un altro aggettivo per quel libro: amaro.
Il 1947 di Elisabeth Åsbrink è il racconto di come il conflitto arabo-israeliano trovi un punto di non ritorno, di come i nazisti comincino a riorganizzarsi in fretta e a ritessere la propria tela, di come nasca la guerra fredda, di come Michail Kalashnikov perfezioni il suo fucile mitragliatore, di come si svolgano i processi contro i criminali di guerra, di dove George Orwell scriva 1984.
L’autrice scrive anche della storia della sua famiglia, della storia dei suoi antenati ebrei in Ungheria e di molte altre cose accadute in quell’anno seguendo un filo che si dipana inseguendo varie storie mese dopo mese, compresa quella di uno misconosciuto giurista Raphael Lemkin, che farà di tutto perché venga approvata alle Nazioni Unite la convenzione sul genocidio. Verrà nominato per sei volte al Nobel per la pace, che non riceverà mai; morirà precocemente per un collasso dovuto allo sfinimento per la sua battaglia e solo sette persone saranno presenti alla sua sepoltura.
Queste e altre vicende troverete raccontate in questo libro, che non sono in grado di dire se sia bello, ma sono certo che non lascia indifferenti; poi gli aggettivi sta a voi cercarli.
per BookAvenue, Davide zotto