Garcia Màrquez si è spento a casa sua con la moglie e i suoi due figli accanto. Lo aveva chiesto ai medici quasi presagendo l’imminente fine; voleva tornare a casa dopo essere stato colpito dalla polmonite e nonostante il rischio di complicazioni dato il suo cagionevole stato di salute. Questo grande scrittore del mondo intero ci ha lasciati, ieri, a 87 anni.
Le ultime parole al mondo di Gabriel Garcia Màrquez sono quelle del discorso all’ONU (“Non vengo qui a fare un discorso”) e sono del 2010. “Gabo”, per le persone che l’hanno amato, aveva già annunciato il suo ritiro dalla scrittura nel 2009 e “il non discorso”, pubblicato dalla Mondadori, raccoglie anche una serie di saggi sparsi racchiusi nel volume. Al termine della lettura alle Nazioni Unite, molti ricorderanno, disse che quelle parole lo definivano come scrittore e che avrebbero segnato un solco tra il suo essere individuo tra il prima e il dopo averlo scritto.
Al premio Nobel della letteratura 1982, era stata diagnosticata l’Alzheimer già da molti anni, e per bocca di suo fratello Gaime, è la ragione del suo ritiro dal suo lavoro di fronte alla consapevolezza di non poter più replicare capolavori universali della letteratura come “Cent’anni di solitudine”. Un libro che segna marcatamente la presenza dell’uomo su questo piccolo pianeta instabile popolato anche da altre creature. E proprio nell”82, il discorso all’Accademia in occasione del ritiro del premio, dal titolo “La solitidine dell’America latina”, è diventato un testo di riferimento dell’intera opera letteraria non solo di questo gigante che il mondo ci ha regalato, ma anche di una intera generazione di scrittori latino-americani che ne ha fatto il proprio manifesto culturale.
“Gabo” era nato il 6 Marzo del 1927 ad Aracatama, in Colombia; i suoi si trasferirono a Barranquilla lasciandolo a vivere con i nonni. Il suo, era il colonnello Nicolas Màrquez, un veterano della guerra dei Mille Giorni; la guerra civile combattuta, tra il 1899 ed il 1902, nella neonata Repubblica di Colombia, che vide pesantemente coinvolta Panamá a quel tempo semplice dipartimento colombiano, causata dai contrapposti Partito Conservatore e Partito Liberale, insieme alle sue frange radicali (questo per dire che cavolo combina l’idea liberale, ma questa è un’altra faccenda). Per dire che suo nonno ebbe molta influenza su quello che saranno i personaggi di “Cent’anni di solitudine”, ma è forse della nonna Tranquilina, una grande conoscitrice di leggende e fiabe, il merito di avergli trasmesso l’amore per la letteratura.
Nel 1947 si trasferì a Bogotà per studiare giurisprudenza e poi scienze politiche e abbandonati gli studi, si trasferì a Catagena dove inizio la sua carriera di giornalista presso El Universal. Nel 1955 esordisce con “La cucciolata” di lì a breve si sposa e si trasferisce per un breve periodo in Europa – tra Roma, prima, e successivamente a Parigi.
Nel 1961 si reca in USA dove vive per un breve periodo ma viene spiato dalla CIA per le sue simpatie per il governo castrista costringendolo, quasi, al suo definitivo trasferimento in Messico. E’ di quel periodo l’uscita di “Nessuno scrive al colonnello”, il suo secondo romanzo, e la scelta della scrittura come mestiere. Del ’67 è la prima edizione di “Cent’anni di solitudine”: come definirlo se non come un libro enorme? “Memorie delle mie puttane tristi” è il suo ultimo romanzo ed è del 2004 che segue di ben dieci anni dopo “L’amore e altri demoni”; la sua bibliografia è, naturalmente, più corposa e comprende una trentina di libri tra romanzi e saggi compresa un’autobiografia: “Vivere per raccontarla”, del 2002. E’ stato anche sceneggiatore, mestiere, questo, che ha spesso condiviso con il suo amico di sempre: l’altro grande scrittore sudamericano Carlos Fuentes. “L’amore ai tempi del colera”, “Notizia di un sequestro”, “L’Autunno del patriarca”, Nessuno scrive al colonnello”, sono solo alcuno dei titoli che nel campo della narrativa hanno segnato un prima e un dopo della letteratura latinoamericana e più in generale di quello che noi sappiamo della letteratura così come la conosciamo. Màrquez con il suo lavoro ha definito un genere letterario vero e proprio, quello chiamato “Realismo Magico” e “Cent’anni di solitudine” è il suo paradigma.
Garcia Màrquez ha interrotto il suo lavoro di scrittore agli inizi degli anni settanta per un paio di anni: dal 73 al 74 per dedicarsi, di nuovo, all’attività di giornalista “sul campo” per contribuire a far conoscere al mondo la tragedia del colpo di stato in Cile di Pinochet e l’uccisione di Salvador Allende. A Roma fece parte di una speciale commissione del Tribunale Russell (quella del matematico Bertrand) per esaminare la violazione dei diritti umani in Cile.
Ritorna in Patria solo nell’83 in occasione della morte a 97 anni di suo padre. Per il resto, ha vissuto tra Città del Messico, Cartagena e Parigi.
Agli inizi del 2000 gli viene diagnosticato un cancro linfatico ed è l’occasione per tornare a scrivere. Questa volta per “Vivere per raccontarla”: la sua autobiografia con la quale celebra la sua vittoria sulla malattia. Lo scorso anno, in occasione di alcune interviste per festeggiare i suoi 86anni si è detto contento e felice di esserci ancora con qualche acciacco ma, tutto sommato, in buona salute.
Il mondo lo ha amato e celebrato; lui ha amato il suo continente. Ha condiviso e sostenuto le ragioni di Castro prima e di Chavez successivamente. E’ stato anche un oppositore del governo boliviano di Velez che, secondo Màrquez, avrebbe favorito i cartelli della droga verso coloro i quali ha lanciato più di un appello a riporre le armi proponendosi come mediatore per un percorso di pace.
Al mondo rimangono i suoi libri ed è una eredità di parole enormi, come quelle che seguono.
L’incipit di Cent’anni di solitudine:
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito».
per BookAvenue, Michele Genchi