di Michela Murgia
Stamattina è apparsa sui giornali la notizia del suicidio di un ristoratore romano di origine sarda. L’articolo si concludeva in modo curioso: “Dai primi accertamenti degli investigatori sembra che l’uomo non soffrisse di depressione nè avesse debiti o problemi economici. Ma le indagini sono solo all’inizio”. La chiosa suggerisce al lettore due cose: la prima è che le cause più ovvie di qualunque suicidio siano da ricercare nella depressione e/o nei problemi economici; la seconda è che questi motivi, che al momento non sembrano esserci, non sono comunque esclusi e potrebbero emergere da un’indagine più approfondita. Chi ha firmato quell’articoletto dal tono un po’ deluso (mannaggia, non c’erano i motivi economici!) con ogni probabilità è afflitto dalla sindrome giornalistica della crisi assassina.
La crisi assassina è la categoria dell’informazione che pretende di riunire all’interno della stessa lettura socio-politica tutti i suicidi per apparente difficoltà economica. I titoli con cui la si può riconoscere sono sempre simili: Trovato morto nella sua casa uomo di 52 anni.”Depresso perché aveva perso il lavoro” – Si uccide per problemi economici. 53 anni, un colpo di pistola – Tasse e bollette da pagare. Si impicca nel suo garage e decine di altri, tutti identici per logica.
Come si può essere certi che queste morti siano effettivamente collegate alla situazione economica? Talvolta è il morto medesimo ad autorizzare questa lettura, lasciando un biglietto in cui attribuisce a quella ragione il suo gesto estremo: ma è tutt’altro che frequente. Nella maggioranza dei casi accade invece che siano i giornalisti stessi, con l’aiuto degli onnipresenti vicini di casa del defunto, a mettere in relazione la morte della persona con l’esistenza di debiti, fallimenti imprenditoriali o perdita del lavoro. Il risultato di questa enorme narrazione collettiva è che oggi in tutta Italia le persone comuni sono convinte che siamo travolti da un’ondata anomala di suicidi per crisi, che il governo che permette la crisi sia un assassino e che le morti volontarie siano in realtà omicidi di stato. Con tutto il rispetto per la disperazione di chi si toglie la vita, questa lettura allarmistica non ha fondamento.
Già un anno fa Daniela Cipolloni, dalla cui accuratezza molti suoi colleghi potrebbero prendere esempio, era andata a spulciarsi i dati Istat e aveva rilevato come non esista alcun trend di crescita nelle statistiche dei suicidi, tantomeno di quelli per ragioni economiche. I numeri dell’Istat non solo dicono che l’Italia nei paesi OCSE ha i tassi mortalità per suicidio tra i più bassi, ma indica che dal 1993 al 2009 il numero di persone che si uccidono è calato da 8,3 a 6,7 per 100.000 abitanti. Secondo gli ultimi dati di cui disponiamo, i motivi economici sono in assoluto la ragione meno incidente sulle morti volontarie, ampiamente sovrastata dai suicidi per malattia e da quelli per questioni affettive.
Tolte le altre cause, i suicidi ascrivibili a motivi economici sono circa 180 all’anno su un totale di circa 3000, tutt’altro che un’anomalia. Eppure anche per questi 180 bisognerebbe andare molto cauti nel sostenere che la causa sia la crisi. Nell’articolo che Daniela Cipolloni aveva scritto per Wired era riportato un confronto con gli altri paesi europei e quello che ne veniva fuori era che in Germania, la cui economia tiene ben più della nostra, il numero dei suicidi è quasi doppio rispetto all’Italia e in Finlandia, dove la qualità della vita è infinitamente più alta, i suicidi sono quattro volte superiori ai nostri. Nella Grecia collassata, grande spauracchio dell’Europa economica, ci sono poco più della metà dei suicidi rispetto all’Italia. Cioè, evidenziava la giornalista, il paese nel quale la situazione economica è più drammatica è anche quello dove si verificano meno suicidi in tutta Europa. C’è il tanto per affermare che la narrazione della crisi assassina è un evidente esempio di informazione imprecisa e allarmistica.
Perchè ci piace tanto credere che la gente si stia ammazzando per la crisi? Una ragione possibile è che, al di là dell’elemento macabro, quello della crisi assassina è un alibi di ferro: offre la rappresentazione di un mondo dove il senso di fallimento che spesso proviamo nei periodi di difficoltà economica può essere scaricato interamente sul “sistema”, un personaggio narrativo privo di personalità, un golem cieco contro cui nessun eroe-cittadino può combattere da solo. Quella dei suicidi per crisi, nonostante le apparenze, è però anche una storia rassicurante: la crisi è un nemico circoscrivibile; se ora uccide, significa anche che quando finirà le persone smetteranno di morire, basta solo che i politici si mettano a fare le scelte giuste. E’ su questa notazione che subentrano le ragioni per cui tutti i giornali insistono sulla narrazione della crisi assassina: i morti suicidi sono una potentissima arma di pressione sulla classe politica, addittata all’opione pubblica come complice di morte perchè non compie le scelte che impediscono alla gente di uccidersi.
Così accade che i giornali, con una leggerezza deontologica impressionante, continuino a reiterare sia le notizie dei suicidi che il falso collegamento con la crisi, senza curarsi di scatenare l’effetto Werther dell’emulazione: Repubblica ha persino una categoria d’archivio apposita, per tenere il conto. Le formazioni politiche e le parti sociali dal canto loro utilizzano ben volentieri quella lettura per accusare gli avversari di seminare disperazione nel paese e così i lettori/elettori vivono un senso crescente di panico scatenato dalla falsificazione delle notizie e dal loro uso strumentale. Questo è il potere delle narrazioni, vere o false che siano. Se si riesce a convincere abbastanza persone a crederci, genereranno effetti reali.
Collateralmente è impossibile per me non notare che bastano meno di una ventina di presunte morti “per crisi” dall’inizio dell’anno 2013 per innescare rapidamente un’emergenza nazionale e scatenare decine di conferme di lettura a supporto, mentre centocinquanta donne morte per mano maschile ogni anno non sono ancora sufficienti per convincere i direttori dei giornali a riconoscere univocamente il fenomeno sociale del femminicidio. Immagino sia perché la narrazione del femminicidio, a differenza di quella della crisi assassina, non rassicura e non assolve alcuno. Se l’evidenza del femminicidio viene rifiutata è perchè è difficile accettare l’esistenza di una trama dove il golem, senza sconti, siamo noi.