L’ospite incallito è un po’ un racconto. Un po’ poesia. Un po’ solo pensieri sparsi.
Per chi conosce Erri De Luca, i suoi scritti intendo, questo libro è una sorta di biglietto agli amici. Un segno lasciato sul tavolo che si può leggere a qualunque ora del giorno, partendo dall’inizio oppure dalla fine o anche dal centro. E dopo averlo letto puoi lasciarlo lì dove l’hai trovato perché è piacevole riaprirlo e leggerlo di nuovo e poi di nuovo, ancora.
È un po’ un racconto. Un viaggio nella memoria da ospite fisso, sempre.
«Ospite fisso a casa della rivoluzione…cuori presi al volo appena in tempo […] ospite pure nell’amore se già ce ne era un altro […] ospite incallito, ancora oggi entrando a casa vuota da un viaggio, mi scappa di chiedere: «Permesso?»
Questo è il tono e queste le parole usate per delineare il suo essere transeunte. Di passaggio.
Un racconto che è anche un’autobiografia che definisce e fissa, proprio nei ricordi che affiorano, un percorso di conoscenza e di ri-conoscenza. Percorso che prende le mosse dalla figura del padre, «Il fiato uscito caldo di pensieri dal tuo cranio si è infilato nel mio, succede ai posti che conservano l’aria di una sera per cent’anni», e dalle coincidenze, dal vino e dalle zingare.
Poi arriva l’attesa e subito dopo, l’amore. I consigli e poi di nuovo l’attesa e di nuovo l’amore.
«Fai come il lanciatore di coltelli, che tira intorno al corpo. Scrivi di amore senza nominarlo, la precisione sta nell’evitare. Distraiti dal vocabolo solenne, già abbuffato, punta al bordo, costeggia, il lanciatore di coltelli tocca da lontano, l’errore è di raggiungere il bersaglio, la grazia è di mancarlo.»
Fino al punto di cambiare il linguaggio stesso dell’amore. Di riuscire a definirlo in altro modo.
«[…]ci dev’essere pure innaturale, con cui sostituisco il verbo innamorare perché succede questo: che risento il corpo, mi commuove una musica, passa corrente sotto i polpastrelli […] M’innaturo di te quando t’abbraccio.»
Un racconto che mentre si legge si trasforma in poesia e ridiventa subito racconto.
«Accosto la fronte alla tua, si toccano, dico: «È una frontiera». Fronte a fronte: frontiera, mio scherzo desolato, ci sorridi. Col naso ci riprovo, tocco il naso, per una tenerezza da canile: «E questa è una nasiera», dico per risentire casomai un secondo sorriso, che non c’é. Poi tu metti la mano sulla mia e io resto indietro di un respiro. «E questa è una maniera», mi dici. «Di lasciarsi?», ti chiedo. «Sí, cosí».
E dopo il racconto e la poesia tanti pensieri sparsi. Pensieri sulla guerra, sulla politica, sugli uomini. Tutto tenuto rigorosamente chiuso in maniera ermetica, dentro. Poi come per magia, pfuuuuuu. Un lungo respiro e tutto salta fuori ed è condivisione.
«In bocca ho una stanza di baci rinchiusi, che fanno il rumore di un alveare. Poi il corpo si precipita alle labbra come alla porta della città per applaudire.»
Adesso tutto diventa più chiaro. La genesi, le scelte. I silenzi, la solitudine.
Lo strazio della guerra, delle guerre. Quelle di ieri e quelle di oggi.
«Battersi per Madrid fu il compito assegnato ai genitori, andare in Bosnia è stato quello nostro, voi siete stati il noi, pronome impersonale della fraternità.»
Per finire a parlare di guerra giusta, un ossimoro.
«Di guerra giusta ce n’è stata una e nessun’altra, quella di Troia: due popoli alle armi per chi dei due doveva tenersi la bellezza»
Dove c’è la guerra c’è la politica. La politica che accende entusiasmi, che ti coinvolge e ti fa smuovere perfino le montagne.
« […] finiva tra noialtri come una nonna messa in girotondo, era bella, anche alla sua età, quando ripetevamo: «Futura umanità».
E poi c’è la politica che ti asserve. La politica che ti umilia. Quella che devi ricordare e alimentarne il ricordo.
«Ti parlo de ‘sti ccose addolorate pecchè tu saie senti’, ma nun pozzo permettere a nisciuno di voi venuti dopo di giudicare Napoli in quell’ora, pecchè ‘o fascismo vuie nun ‘o sapite.»
E nel ricordo, dal ricordo, emerge la figura struggente di Charlie Chaplin che con leggerezza ha saputo lasciare tracce importanti e definitive che hanno seppellito sotto una risata amara, la dittatura e il dittatore.
«È il Chisciotte che non abbiamo meritato. Ha preso in giro lo sterminatore del suo popolo riuscendo a maledirlo col sorriso, nessuno è stato tanto fuori posto nel millenovecento. Perciò di tutt’un secolo di noi, ricorderanno lui.»
Uno sguardo quello di Erri De Luca che è uno sguardo sulla vita. Uno sguardo che parte dal suo mondo per parlare di temi universali. L’infanzia, la mamma, il padre, la guerra, le guerre. Incontri e ricordi in cui De Luca si racconta e ci racconta il mondo visto con i suoi occhi. Un momento d’intimità che non va sciupato, che non va disperso.