Non c’è nulla da festeggiare.

foto primo maggio
   Tempo di lettura: 8 minuti

A fine anno 2022 quasi tre milioni di persone nel nostro paese, tre milioni, non avevano e non hanno ad oggi un lavoro stabile (8% circa totale, 6% maschi il 10% donne)(*). Il lavoro precario ha numeri da capogiro: 50mila solo nella scuola, 25mila nella sanità e il sommerso si pensa tocchi la metà di chi ha un’occupazione tra i 17 e i 25 anni. Nonostante i toni trionfalistici sui dati economici del nuovo governo, e la cecità del precedente, gli inattivi del nostro paese sono circa duemilioni e mezzo di persone da sommare ai dati precedenti delle persone che non lavorano.(**). Il tutto si traduce nei seimilioni di poveri del nostro paese – dicansi seimilioni – il 10% della popolazione, cui si somma la questione demografica e migratoria (***).

Se vi sembrano questi numeri per festeggiare…

La spinta al cambiamento e all’evoluzione dei contenuti del lavoro sembra oggi essersi pericolosamente ridotta, e questo è forse il sintomo più preoccupante della progressiva marginalità del lavoro. Perché senza attenzione al “come” e al “perché” si lavora, oltre che alle condizioni alle quali si è disposti a farlo, si fa spazio a un progressivo degrado che ha riflessi anche sull’identità delle persone, sulla loro crescita, sulla loro cittadinanza e tradendo lo spirito della Costituzione. Per reagire occorre almeno ricordare che sono in primo luogo la crescita economica e la specializzazione produttiva nei settori avanzati a offrire le migliori opportunità di sviluppo e miglioramento dei contenuti del lavoro, che la diffusione di autonomia decisionale – unita a responsabilità attraverso una revisione dei modelli organizzativi volta a renderli più reattivi ai cambiamenti ambientali – arricchisce il significato di compiti e mansioni attribuiti agli individui, e che sono soprattutto i dirigenti delle nostre imprese responsabili di creare e mantenere un clima organizzativo (fatto anche di regole chiare e rispettate) nel quale la dignità e il valore delle persone siano promossi e rispettati. Ma non mi stancherò mai di ripetere che una azienda che abbia valori fondanti e capace di trasmetterli ha meno bisogno di imbrigliarsi in modelli procedurali. Mentre si assiste ad un deterioramento progressivo della capacità di molti manager o responsabili di produrre idee invece bravissimi a dettare regole.

Spostare dal fare bene a fare del bene sembra essere un bel tema in fatto di responsabilità sociale d’impresa e ci sarebbe davvero bisogno di un tempo nuovo di attenzione, di confronto e di proposta. Soprattutto di ascolto: basti ricordare Natale Cappellaro che fece la fortuna dell’Olivetti.

Ragioni diverse e sufficienti per trovare ancora di enorme attualità, segno distintivo che non si affatto andati avanti dall’anno di pubblicazione nel 2009, “Il lavoro non è una merce” pubblicato da Laterza. Nel frattempo Luciano Gallino, autore tra l’altri del fondamentale Dizionario di Sociologia, è mancato nel 2015 lasciando un vuoto incolmabile nello studio sociologico dei processi economici.

In nome della competitività, tutto questo parlare di flessibilità e costo del lavoro ha fatto in modo che negli anni si sottraessero capitali importanti sottoforma di mancata tassazione e aiuti per le imprese, attribuendole benefici che, per la legge dei vasi comunicanti, ha aumentato il peso delle tasse di chi le paga in busta paga e, non ultimo, l’incapacità della politica a tutti i livelli che ha contribuito – non nascondiamocelo più per favore – alla perdita di capacità di acquisto dei nostri salari. Tra l’altro, l’aumento delle retribuzioni, ormai passa solo per le contrattazioni collettive e/o dalla capacità di chi è preposto a vedere l’iniquità della condizione di molti cittadini, incidendo finalmente su una più equa ridistribuzione della ricchezza. Non c’è imprenditore, infatti, che sia in grado autonomamente di aumentare gli stipendi.
La risultante, Covid compreso tra l’altri, spiegherebbe la grande disparità in atto nel nostro Paese tra chi si arricchisce sempre di più e di chi paga il fenomeno della sperequazione dei salari allargando la forbice con la povertà. E’ vero, accidenti!, che la gente non arriva a fine mese. Chi nega questo, vive in una Babilonia tutta sua.
Non solo. Sul fronte “immateriale”, si assiste all’arretramento importante del lavoro come valore sociale. Si e’ distrutto il concetto del lavoro inteso come valore irrinunciabile dell’individuo (mi ripeto: costituzionalmente garantito con l’Art.3) tradendo proprio l’idea con cui l’individuo compie il suo diritto di cittadinanza inserendosi pienamente e compiutamente nel sistema produttivo, svilendolo di contenuto grazie alla nascita delle tipologie diversificate dei contratti di lavoro.

La flessibilità del lavoro si traduce nelle forme di “contratto di lavoro” quand’anche queste rientrino a pieno titolo nel diritto del lavoro. In questa molto variegata e assortita definizione si definisce “atipico” tutto quello che non rientra in un contratto a tempo pieno e con durata indeterminata.
Ci sono: i diversi contratti di durata “determinata” che vanno da due settimane a tre anni (sono testimone di persone che dopo quattro anni, quattro!– non avevano ancora un’assunzione definitiva); poi i contratti a tempo parziale: all’inglese, i part time; i contratti di lavoro in affitto (!) una volta chiamati interinali oggi ” di somministrazione” – come le medicine – che si possono applicare ad uno o a gruppi di persone; i contratti di collaborazione continuata e continuativa -i famosi co.co.co- che giuridicamente considerano gli individui come liberi professionisti, ma che di fatto ricevono ordini e orari di lavoro veri e propri rendendoli para-subordinati; il lavoro a “progetto”; i lavori con contratto “ripartito”, insomma: dove due persone fanno il lavoro di una; ancora: quello di lavoro intermittente (come il pulsante della luce) o di prestazione occasionale.
Perché non chiamare con una parola sola tutte queste nuove forme di lavoro? Precarietà. Appunto.

Abbiamo capito tutti che il lavoro è cambiato: questo è un fatto. E sono anche cambiate le regole dell’accesso al lavoro, in specie se è il primo. Ma una cosa è cambiata profondamente: il costo umano della flessibilità. Cosa vuol dire oggi essere flessibili e qual’è il prezzo da pagare quando un datore di lavoro può assumerti anche per una sola settimana? Per una volta, perché non ci si ferma a pensare alle ferite dell’esistenza che questa flessibilità produce? Perché, per una volta, una soltanto, non ci si ferma a pensare alle forme d’ansia, all’insicurezza così diffusa oggi e al tradimento – questo sì – di intere generazioni che si affacciano all’acquisizione di quel diritto di cittadinanza di cui scrivevo prima? Ha ancora senso parlare in questo benedetto Paese, di capitale umano? Io credo di no. Almeno fino a quando non cambierà l’idea che la persona non è identificabile come risorsa produttiva ma un “deposito mobile di forza lavoro erogabile a comando e sempre nel momento giusto”. Proprio come le medicine quando stai male. Proprio come l’interruttore della luce quando c’è buio.

.

per BookAvenue, Michele Genchi

.

Fonti:
(*) Istat, http://dati-capumano.istat.it/Index.aspx Lavoro 2022
(**) Istat, http://dati-capumano.istat.it/# Inattivi 2021-2
(
***) Assai interessante è il lavoro di ricerca pubblicato dalla Fondazione Di Vitorio sul sito della Cgil

.



Il libro:

Luciano Gallino,
Il lavoro non è una merce,
Laterza editore 6a ed.2009, pp.180

.


BookAvenue Newsletter

Hey, ciao 👋
Piacere di conoscerti.

La nostra newsletter arriva ogni mese. Iscriviti! Niente pubblicità e promettiamo di non abusarne.

Non inviamo spam! Leggi la nostra Informativa sulla privacy per avere maggiori informazioni.

Articoli consigliati