Wanderlust. Una storia di piedi

trekking, foto di uomo al tramonto su sentiero di montagna
   Tempo di lettura: 12 minuti

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Sono certo vi sia capitato chiedervi al termine di una giornata terribile con le gambe doloranti e i piedi a pezzi, come è accaduto di infilarvi in una terribile maratona tra uffici, servizi, cose da fare e comprare senza sosta fino all’ora del rientro.  Come diavolo avete fatto a sopravvivere ai chilometri percorsi quando avreste più comodamente potuto prendere l’auto e stancarvi di meno.
A volte, invece, accade il contrario. Capita, cioè, che vi chiediate cosa state combinando al chiuso dell’auto bloccati nel traffico e perché, ancora, diavolo non siete usciti a piedi magari utilizzando la metropolitana e profittarne per fare due passi.

Il più delle volte camminare è semplicemente pratico: una loco-mozione non considerata tra due -o più- luoghi. Altre volte, il camminare è esso stesso un luogo dove recuperare energie, dove rimettere in ordine i pensieri, per fare delle vacanze low cost e, per chi ci crede, ritrovare le corde della propria spiritualità. Cito Rebecca Solnit autrice del libro oggetto delle righe che seguono: “rendere il camminare un’indagine, un rituale, una meditazione, è un sottoinsieme speciale del camminare, fisiologicamente simile e filosoficamente diverso dal modo in cui il corriere postale porta la posta e il pendolare raggiunge il treno e, aggiungo, la vostra terribile giornata di cui sopra.  Il che vuol dire che il tema del camminare è, in un certo senso, il modo in cui investiamo gli atti universali con significati particolari. Come mangiare o respirare, l’atto di mettere un piede davanti all’altro, può essere vissuto con significati culturali diversi, dall’erotico allo spirituale, dal rivoluzionario all’artistico. Questa Storia del Camminare inizia a diventare parte della storia dell’immaginazione e della cultura, di quale tipo di piacere, libertà e significato sono perseguiti in tempi diversi da diversi tipi di passeggiate e camminatori.

L’autrice riconosce nel suo libro, pubblicato da Ponte alle Grazie*, che l’esperienza soggettiva del camminatore è ciò che plasma il percorso di questo sentiero immaginario attraverso le varie sfere della cultura. Il ritmo del camminare genera una sorta di ritmo del pensiero, e il passaggio attraverso un paesaggio riecheggia o stimola il passaggio attraverso una serie di pensieri. Ciò crea una strana consonanza tra il passaggio interno ed esterno, il che suggerisce che la mente è anche un paesaggio di sorta e che camminare è un modo per attraversarlo. Un nuovo pensiero sembra spesso una caratteristica del paesaggio che è sempre presente, come se pensare fosse viaggiare piuttosto che fare. E così un aspetto della storia del camminare è la storia del pensiero resa concreta – perché i moti della mente non possono essere rintracciati, ma quelli dei piedi possono farlo.

In effetti, la storia dello sforzo creativo umano è piena di artisti e scrittori le cui menti sono state spinte dal movimento ritmico delle gambe. Penso, a tal proposito, all’Italia del Tour e i viaggiatori dell’epoca, il più delle volte a piedi, Stendhal e Goethe solo per fare un esempio; qualcosa che Rebecca Solnit definisce meglio della sua funzione puramente legata al trasporto.  Dice: “…Forse camminare dovrebbe essere chiamato movimento, non viaggio, perché si può camminare in cerchio o viaggiare intorno al mondo immobilizzato in una sedia, e un certo tipo di voglia di viaggiare può essere solo placato dagli atti del corpo stesso in movimento, non dal movimento di una macchina, una barca o l’aereo. È il movimento e il modo di vedere che sembra far accadere le cose nella mente, e questo è ciò che rende il camminare ambiguo e infinitamente fertile: è sia mezzo che fine, viaggio e destinazione.”

Marc Augè ha parlato per primo e molto bene dei non luoghi; nel suo famoso libro dice: “nasciamo in clinica, moriamo in ospedale, viviamo in un perenne transito…”. Si chiede, cioè, se la nostra società non stia distruggendo il concetto di luogo, così come si è configurato nelle società precedenti. Il luogo infatti ha tre caratteristiche che lo definiscono: è identitario e cioè tale da contrassegnare l’identità di chi ci abita; è relazionale nel senso che individua i rapporti reciproci tra i soggetti in funzione di una loro comune appartenenza; è storico perché rammenta all’individuo le proprie radici. Come testimonia il grande antropologo, molte persone oggi vivono in una serie di non luoghi – aeroporti, ospedali, metro, palestra, ufficio, negozi, banche, eccetera, tutti scollegati gli uni dagli altri. A piedi tutto rimane connesso, perché mentre si cammina si occupano gli spazi tra quegli interni. Anche quando, questi, sono la ragione per la quale ci si muove.

Oggi le tecnologie sembrano, al contrario, fatte per farci risparmiare i passi; pensiamo al modo con cui oggi possiamo evitare di andare nelle nostre destinazioni per effettuare i pagamenti o fruire di servizi standocene comodamente in poltrona. Ma Rebecca Solnit non vive su Marte e sa chiaramente comprendere che la comodità di portare i non luoghi in tasca, ora che ci accompagnano in tutte le passeggiate, finiscono con il generare l’esatto opposto. L’idea di essere sempre connessi significa venire meno all’idea di muoversi e il libro, in fondo, tenta di misurare fino a che punto questa nozione di connessione generi l’esatto opposto. Fermarsi a riflettere su questo sembra essere una rinnovata necessità di tutti. Non ci credete? Provate a guardare quanta gente cammina guardando il proprio telefono.

Il mondo in tasca con l’Iphone, per dirla con Steve Jobs, sta violando la nostra interazione con il mondo esterno – non solo attenuando la nostra attenzione al mondo naturale e diminuendo la nostra disponibilità a “studiare e osservare ogni minima cosa vivente” con “il massimo dell’amore e dell’attenzione“, cito l’autrice, ma anche in epicentri densamente popolati – penso ai miei concittadini di Roma -, manomettendo la nostra capacità di eseguire un’arcaica danza pedonale conosciuta come passeggiare.

Thoreau è stato il profeta della lentezza. La moltiplicazione delle tecnologie in nome dell’efficienza sta effettivamente sradicando il tempo libero, consentendo di massimizzare il tempo e il luogo di produzione e minimizzare il tempo di viaggio non strutturato nel mezzo. Le nuove tecnologie di risparmio di tempo rendono la maggior parte delle persone, in specie i lavoratori, più produttivi non più liberi in un mondo che sembra accelerare intorno a loro. Inoltre, la retorica dell’efficienza attorno a queste tecnologie suggerisce che non si può valutare ciò che non può essere quantificato e che quella vasta gamma di piaceri che rientrano nella categoria del non fare nulla in particolare, del guardare le nuvole, dei vagabondaggi, dello stare insieme agli altri, sono nient’altro che vuoti da riempire con qualcosa di più definito, più produttivo, o più veloce … Uno di questi tradimenti del vuoto è solitamente chiamato shopping experience ma ce ne sono altri. Qui si aprirebbe il dibattito su come abbiamo fin qui abusato del nostro tempo sprecandolo nei negozi a comprare cose che non ci servono e/o fruire di servizi che non sapevamo di aver bisogno. Ma non è questa, forse, la sede per questa riflessione.

Storia del camminare raccoglie molti ragionamenti e divagazioni sugli aspetti storico-culturali della nostra civiltà direttamente o indirettamente legati all’escursionismo: dalle marce di protesta come ai secolari cammini di pellegrinaggio, la cura per l’ambiente, l’effetto dannoso della urbanizzazione, la relazione tra emancipazione femminile e l’escursionismo, fino al rapporto tra democrazia e tempo libero, sistema cognitivo e così via. Nel mezzo, molti elementi rendono possibile una ricostruzione della storia del camminare, ma il lettore deve mettere insieme il puzzle da solo. Sono abbastanza sicuro che Rebecca Solnit l’abbia fatto apposta: il suo l’obiettivo finale è rendere chiaro che camminare è fine a se stesso non la destinazione; luogo, questo, molto meno importante dell’attività in sé. Questa cosa è assai nota ai pellegrini quale che sia la via che percorrono.

Il libro scorre perché è ampio e filosofico con molti argomenti interessanti sulla nostra cultura elaborati da una posizione chiaramente progressista anche se camminare non è di sinistra né di destra. Allo stesso tempo, non possono che infastidire alcuni specifici accenti californiani perché distanti non solo fisicamente dai nostri piedi, e da qualche opinione a volte abbastanza bizzarra. Rifletto sul fatto che confliggono la dimensione filosofica ricercata – basti guardare le innumerevoli citazioni, fonti e riferimenti a Kierkegaard o Rousseau, come a quella poetica, cito Wordsword , Blake e De Quincey – alla più prosaica vita californiana nei dintorni di Los Angeles dove l’autrice va a correre, fino alla storia del termine passeggiatrice il cui soggetto, nell’immaginario collettivo, tutto fa meno che farsi una camminata…

Una curiosità del libro sono, infine, le citazioni letterarie che si susseguono a fondo pagina dall’inizio alla fine.

“… camminare regala l’idea non tanto peregrina del lascito di segno che imprimiamo al terreno dopo il nostro passaggio”

Finisco. Qual è la dimensione che diamo al nostro primitivo atto di reggerci sulle gambe è il compito che lascio ad ognuno di coloro i quali desiderino leggersi il libo dopo essersi incuriositi da queste righe. Misurarsi con la propria personale esperienza sarà, inevitabilmente, storia di poi.  Vi catturasse un giorno il sacro fuoco del Wanderlust vi accorgerete, dopo un po’, che percorrere trenta chilometri al giorno per un mese di seguito solo per visitare una chiesa non sono affatto una grande fatica. O decidere di tagliare l’Italia (in verticale) in due per dire da vecchi che lo si è fatto solo per vedere la bellezza dei nostri luoghi. Dopotutto, l’ho già detto altrove, camminare regala l’idea non tanto peregrina del lascito di segno che imprimiamo al terreno dopo il nostro passaggio. Il che mi sembra un motivo di per sé sufficiente per mettersi lo zaino in spalla. Non più solo un’occasione per non farsi ostaggio del traffico quindi, ma per acquisire una nuova consapevolezza di recuperare la propria geografia di individui mentre le gambe pendolano l’una dopo l’altra.

Buen Camino!

per BookAvenue, Michele Genchi

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*una prima edizione del 2002 è stata pubblicata da Bruno Mondadori per la traduzione di G.Agrati e M.Magini

altre fonti:
New Yorker, Aprile 2018 Elizabeth Barber
Publishers weekly, Aprile 2018,Bonnie Nadel
Richard Carter, Blogger, Maggio 2018
International Soc. Travel Writing, Agosto 2018, Steve Plocher

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