Una maratona su due ruote. Sulle Dolomiti in bicicletta

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Il prossimo 7 Luglio si rinnova una tradizione sportiva che compie ormai ventitre anni. L’occasione è per raccontarvi una breve cronaca delle mie partecipazioni invitandovi a visitare il sito della manifestazione. Con l’occasione delle vacanze in Trentino non perdo l’occasione di percorrere le strade della Maratona delle Dolomiti in bicicletta. Ho ripensato alle mie quattordici edizioni portate a termine, iniziando nell’ormai lontano 2001 e finendo l’anno scorso ad anni alterni. Vi intrattengo per un breve racconto.


Di  tutte serbo un ricordo particolare. Il 2001, la prima partecipazione, l’emozione del debutto, la prima volta in bicicletta senza autoveicoli attorno, le viste ed i paesaggi meravigliosi. Il 2006, il lungo viaggio del sabato da Bari fino a Corvara partendo dopo mezzogiorno per arrivare il giorno dopo con una tappa forzata a Bologna. Il 2019 la prima volta di Alice che aveva solo due mesi. Il 2013, la grande nevicata del giovedì notte. Il venerdì mattina ci svegliammo e Corvara era completamente imbiancata dalla neve. Fortunatamente le previsioni erano buone per i giorni successivi, ma le temperature restarono invernali per tutto il fine settimana. Partii vestito ‘a cipolla’ con intimo invernale sotto alla maglia mezza manica, manicotti e gambali, anti vento smanicato, anti vento lungo, anti pioggia termonastrato, guantini e sopra guanti estensibili, scaldacollo e copriscarpa leggeri. 

Nonostante tutto, il freddo in partenza (4°C) si fece sentire e tutte le discese furono quasi più dure, per il fisico, delle salite. Arrivato al cancello di Cernadoi la tentazione di rinunciare al percorso lungo per evitare ulteriore gelo fu forte. Poi pensai: “Ma quando mi ricapita di salire il Giau in mezzo alla neve?” la decisione fu immediata: si fa il lungo! Così feci ed i paesaggi innevati mi ricompensarono di tutto il freddo che mi tirai addosso in quelle discese e salite, già perché a mezzogiorno sul Giau la temperatura dell’aria non arrivava ancora a 10°C.

Ma di tutte le edizioni ce ne sono due che mi hanno dato emozioni incredibilmente meravigliose. Sono le edizioni del 2003 e del 2011.

Nel 2003 affrontavo la Maratona per la terza volta e dopo aver concluso il percorso medio le due volte precedenti ambivo a portare a termine per la prima volta il lungo (138km, 4230m), tuttavia l’allenamento non era molto differente da quello dei due anni precedenti. Il primo grande scoglio da superare era quello di arrivare al cancello di Cernadoi prima della chiusura. Per me che partivo in ultima griglia venticinque minuti dopo i primi e che non avevo una gran gamba non era per nulla scontato, anzi l’anno prima ero arrivato al bivio proprio mentre stavano chiudendo e dirottavano tutti i ciclisti sul percorso medio. Questa volta arrivo con una decina di minuti di anticipo e posso passare, via in un modo o nell’altro bisogna arrivare. Scavallo il colle di S.Lucia con andatura guardinga cercando di risparmiare più energie possibili. Inizio l’ascesa al passo Giau: dieci chilometri di salita costantemente con pendenze intorno al 10% mai un attimo di respiro. A metà salita le gambe sono già durissime ed il rischio crampi è costantemente dietro l’angolo. 

A due chilometri dalla cima, vedo l’ambulanza del ‘fine corsa’ il tornante sotto di me e dietro di lei la fila delle automobili: alle 13.00 il passo Giau si aprirà al traffico. Ad un chilometro il ‘fine corsa’ mi supera e passo gli ultimi mille metri in mezzo allo smog delle auto. Scollino, c’è il ristoro, bevo, mangio, riposo gli occhi un minuto, riparto. Scendo lentamente incolonnato tra le auto, non mi fido a superare quelle scatolette di metallo: i loro abitanti sembrano tori inferociti dal disguido che li ha tenuti fermi per alcune ore alle porte di Selva di Cadore, ed io sono troppo poco lucido  per poter rischiare il sorpasso. Arrivo a Pocol gli autoveicoli girano a destra verso Cortina d’Ampezzo, io salgo a sinistra verso il passo Falzarego, la salita è lunga, ma non ha mai pendenze impossibili anzi ha anche un lungo tratto in falsopiano che lascia rifiatare. Arrivo al passo e mi fermo all’ultimo ristoro, bevo, mangio, riposo gli occhi, davanti a me l’ultimo chilometro che porta al passo  Valparola: un lungo ‘drittone’ che non scende mai sotto al 10%. E’ l’ultima vera fatica di questa Maratona, lentamente e mestamente lo percorro, le energie muscolari sono azzerate, sono solo quelle nervose che mi consentono di proseguire. Scollino e inizio la discesa molto prudentemente: la testa è ormai poco reattiva. 

Arrivo a La Villa. Fine della discesa, adesso gli ultimi cinque chilometri in leggera salita: sì all’andata erano in leggera salita, ora anche con il 34×26 (perché io già nel 2003 usavo il 50/34!) sembrano una parete verticale. Giungo al traguardo, sono passate poco più di nove ore di corsa, ma non conta. 

Subito dopo il traguardo la consegna dei chip e poi davanti a me: Marina. Ho gli occhi lucidi, anzi no, sto proprio singhiozzando. Marina mi guarda e chiede un poco preoccupata: “stai bene?” – “Sì, Mari l’ho finita ho finito il lungo!”. Ci abbracciamo, l’emozione è devastante: felicità, spossatezza, amore, disorientamento, infinita gioia questo è quello che mi ha donato il primo lungo.

Pensavo che quella sarebbe stata l’emozione più grande che la Maratona delle Dolomiti avrebbe potuto darmi. Mi sbagliavo. Mi sbagliavo molto perché nel 2011 successe qualcosa che mi ribaltò nei sentimenti più profondi. Da due anni era nata Alice, l’anno precedente per colpa di un’influenza mi dovetti accontentare del percorso corto. Poi un lungo periodo di crisi  apprensive nei confronti della crescita della mia bambina mi avevano tolto tempo all’allenamento. Comunque arrivai a luglio in buone condizioni, non con l’allenamento per il lungo, ma con una buona gamba per cercare il mio personale sul medio.

Parto con convinzione, ormai sono alcuni anni che ho diritto alla penultima griglia, quindi passo sotto lo striscione della partenza solo dieci minuti dopo i primi. Percorro il primo giro (Sella ronda) ad un passo discreto senza mai eccedere. da Da alcuni anni la mia famiglia mi aspetta sul rettilineo di Corvara davanti ai Carabinieri (è l’unico punto che per ovvi motivi non ha transenne). Arrivo, cambio di borracce, tolgo manicotti e gambali, un bacio a mia moglie… Quello che non hai preventivato succede: Alice mi chiama per darmi un bacio e mi porge un braccialetto (elastico) di quelli con cui gioca. Marina mi spiega che sarà il mio portafortuna! Lo infilo al polso e riparto. Da sotto gli occhialoni non si scorge nulla, ma gli occhi sono già lucidi. Passo sotto al traguardo (per chi fa il corto) per me che faccio il medio è solo il primo passaggio e gli occhi sono lucidi, inizio la prima rampa del Campolongo e gli occhi sono ancora lucidi, scollino in vetta al Campolongo e… gli occhi sono lucidi! Non solo, ho la pelle d’oca! Non ricordo nulla di quei venticinque minuti abbondanti se non che avevo le lacrime agli occhi e la pelle d’oca. Inizio la discesa ed ho ancora gli occhi lucidi cerco di concentrarmi sulla ‘gara’ per sbarazzarmi dalle emozioni, ma non serve a nulla, periodicamente ritorneranno lungo tutto il percorso fino all’arrivo, quando abbraccerò nuovamente Marina ed Alice. Per la cronaca fecì il mio personale sul medio, ma credo che il merito sia più di Alice che mio. Ora so per certo che, presto o tardi, ci sarà un altra Maratona dles Dolomites che saprà stupirmi ancora di più.

per BookAvenue, Andrea Pennella


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