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Ho incontrato Mario al caffè letterario. E’ il caffè letterario del parco pirandelliano del Caos, sulla sommità della collina a strapiombo sul mare,  ad Agrigento.
Lo scorgo immediatamente col suo vestito estivo di lino beige e la paglietta, guarda verso il sentiero che porta all’altura sul mare.
Lo saluto con un cenno della mano e lui alza lo sguardo vivace che traluce da sotto la falda del cappello e mi sorride, col suo sorriso buono, gentile di chi apprezza il saluto di una donna.
Mario è qui a ritirare uno dei tanti meritati premi, il premio Pirandello.
“Non potevo non raggiungere il suo “Caos” mi dice ripiegando il quotidiano sbirciato fino a che non fossi arrivata.
“Andiamo?” gli domando sorridendo e lui si alza dalla poltroncina di vimini.
E’ una bellissima giornata di sole, il sole spudorato della Sicilia  che si riverbera sui colori densi di mare, di tufo, di ulivi, di mandorli e di terra.

Ci incamminiamo lungo il viale stretto tra i ciottoli lucidi, il viale che porta sul mare. Ho i tacchi troppo alti per inerpicarmi su quel sentiero. Mario mi offre il braccio, allora io mi appoggio con una mano e con l’altra faccio scivolare via i sandali, prima uno, poi l’altro e rimango con le scarpe in mano: “ Faccio senza” gli dico e lui mi sorride guardando i miei piedi scalzi suoi ciottoli del viale.
“Che cosa mi dici di questo grande Siciliano?” gli domando
“ Di Pirandello? Ti dico che aveva il cuore e la testa piena di questi scorci di mare, di mandorli, di agrumi, di opunzie e di fiumi in secca che il cielo ha prosciugato…” mi risponde e ci fermiamo a picco sul mare, una vista mozzafiato ci rapisce.
L’azzurro del mare è così denso che sembra un’immensa coltre di seta damascata e non una distesa d’acqua inconsistente.
“…Ma in tutti questi scorci c’è anche un grido che frammenta il cielo e il mare, è il grido di una umanità che gronda di follia trattenuta sulle sponde arenarie della vita”
“ Ti riferisci a sua moglie Antonietta? Alla sua follia?”
“ Tra l’essere savi e la follia la soglia è minima. Può capitare di mettere in fallo il piede di un muto discorso sull’orlo dell’uscio…l’uscio posto tra psiche e mente. Il tratto è breve, nascosto, come un  sentiero tortuoso, il groviglio delle esperienze umane sugli engrammi della memoria cromosomica…”
“Tarli ereditari e bisogno di alienazione?”
“Esodo, esodo o allontanamento dalla normalità o pseudo normalità…guarda”
Mario mi indica con la mano la campagna alle nostre spalle. E’ un tappeto giallo ocra che si srotola sulle pendici,un tappeto disseminato di cespugli verde smeraldo come cirri su cieli biondi e in fondo la Valle dei Templi posata in una conca stracolma e risonante di vissuto.
“ Avrà sentito il canto di questa antichità, immerso come Omero nella sonorità del tempo, avrà vissuto l’epica ritmata di questa realtà orale densa di tempo vissuto,  non percepito, di spazio concavo dove far risuonare le parole…non poteva essere altrimenti”.
Mario ora è davanti a me, posto di spalle. Lo osservo stagliato contro l’orizzonte giallo ocra. Mi pare di vederlo come si guarda un calice di cristallo colmo di vino, un vino rosso di Salaparuta. Lo guardo attraverso il vetro dei miei cristallini e sorseggio le sue parole e mi sovviene che sono rare e consistenti come carezze.
Quando si gira verso di me, nel suo sguardo scorgo tutto il paesaggio come riflesso sull’ottone lucido e rotondo del pomello di una porta, la porta di un passato e un presente che trasborda in un trabocco di esistenza e vedo tutta la Sicilia in quel trabocco di sguardo e la sua vita di medico e di scrittore.
Mi preme, leggermente, con l’indice e il pollice sul gomito destro e mi invita a ripercorrere il sentiero verso la Casa Museo di Pirandello.
Ridiscendiamo e mi conduce verso la fontana: “ Così puoi sciacquare i piedi e rimetterti le scarpe…saresti nata bene a Magliano” dice e mi sorride.
Io so che vuole dire e ripercorro con la mente gli spazi senza tempo del suo libro, le vie tortuose dei suoi ritratti, alla malattia della mente, agli uomini e alle donne recluse nei manicomi alle urla forsennate e agli sguardi persi. Mi viene in mente un paesaggio nelle coordinate inconsistenti della memoria, una visione di sogno dove i luoghi si appiccicano uno all’altro disordinatamente, come una Pangea indistinta che d’improvviso vuole limitarsi di contorni e si distingue.
Penso a tutto questo lavandomi i piedi sotto la fontana e di tanto in tanto guardo la sua ombra tremolante allungarsi sulla ghiaia.
“ Sono stato a casa di un amico prima di partire” mi dice mentre saliamo la scala di accesso alla casa. Lo dice sorridendo di malinconia. “Sono stato bene, mi pare che in una sola sera abbia rivissuto diversi anni con lui…è una strana sensazione. E’ stato come tornare in un luogo e scorgervi il paesaggio di sempre, immutato e fermo, e vedervi un orizzonte nuovo, mai visto”
“ O forse lo stesso luogo visto da un’altra altura…da un punto di osservazione mai raggiunto” provo ad aggiungere.
“Sì forse hai ragione, visto da un’angolazione mai scoperta sul piano inclinato dell’esistenza”.
“ Che cosa vi siete detti, sì, insomma …durante questa cena”
“ Molte cose per la verità…ma di tutte le cose adesso mi viene in mente solo il suono interrotto di un discorso, quasi sempre il mio…somiglia al suono di una ruota. Hai presente quelle “ruote di preghiera” in uso presso gli orientali?”
“ Sì, le ho sentite in Tibet, ricordi quando sono stata tre anni fa per quel reportage?”
“ Ecco, è stato come il suono di quelle ruote…il racconto della nostra memoria, della memoria di un’amicizia” mentre mi parla arriviamo davanti la teca di cristallo col cratere attico che contiene le ceneri di Pirandello.
Mario lo guarda in religioso silenzio. Il cratere attico a figure rosse su fondo nero. “Ecco, cos’è la vita…una danza di rosse figure sullo sfondo nero”. Quando lasciamo il Caos è quasi il tramonto. Ci spostiamo sulla via Atenea che pullula di gente e la gente, intorno, ha sguardi ben delineati negli occhi che sembrano contenere la ricchezza antica della gente greca, araba, normanna, dei primi autoctoni Siculi primordiali abitanti e la storia gronda ai margini del presente andirivieni.
Ci spostiamo sul lungomare  a San Leone. Tutt’intorno pare un quadro di Guttuso, pennellate di colore e profumo di gelsomini che stordisce e lungo le ringhiere strisce di mare prorompente, sulle rocce  spuma che si infrange.
La luce è bionda come di fuoco acceso, vicino, soffuso intorno, sembra una voce che sussurra ed è solo luce riflessa che indora.
Mario si riempie gli occhi e cammina lentamente. “ Mi viene in mente quella volta a Catania. Cercavamo la casa natale di Verga. Nessuno sapeva chi fosse, in quegli anni, dove avesse vissuto…eppure era un Siciliano, un Catanese, come la gente a cui chiedevo. Addirittura un farmacista ci rispose che si trattava  di cose sapute e dette dai forestieri, non dalla gente del luogo…ecco è questa la follia che rasenta la realtà, il disconoscimento della memoria, quella memoria che appartiene a tutti, l’omertà che riecheggia muta…è come la bellezza di una donna tenuta celata dalla gelosia immemore di una cultura senza sbocchi”
“ Sì lo ricordo il tuo libro, il tuo diario di viaggio sembra che ci si cammini dentro alle tue visioni e non sono superfici piatte, sono anfratti di rocce, sono sentieri nei boschi, sono borghi, meandri di fiumi, arenili”
Ci spostiamo a Porto Empedocle. La sera nel porto pullula di gente, pare una rete brulicante appena issata a bordo.
“Andiamocene a mangiare un boccone” mi dice  e ci avviamo verso una trattoria vicino al molo.
Ci fanno sistemare in terrazza, sotto c’è il mare che mugugna piano, sulla parete alle nostre spalle c’è un gelsomino che odora come la notte, una notte di fiori e di vino.
Dentro e tutt’intorno c’è la Sicilia, una Sicilia trapunta, incantata, stordita dai profumi che si attacca al palato come una lingua estasiata dal gusto.
Pare che d’un tratto tutti i colori si attutiscano nel buio; la luce artificiale  illumina i templi lasciati nella valle. Nell’impalpabile oscurità penso al Caos visitato nel pomeriggio e al respiro di quel luogo.
Osservo Mario, questa sera è malinconico, sorridente, ma malinconico con i suoi occhi attenti che se potessero dire delle visioni avute in sogno sarebbero come un lungometraggio di viaggi e di scorci e di attraversamenti sui binari dell’esistenza, binari reali ed immaginari.
“ Ieri mattina sono stata a Siculiana a visitare la spiaggia” gli dico per distogliere il suo sguardo dai pensieri come la notte.
“La costa è splendida con la sabbia dorata quasi bianca …sembra una laguna quella lingua di sabbia che si allunga nell’acqua”
“ Saresti dovuta venire con me in uno di quei viaggi attraverso l’Italia, quei viaggi in un Paese che più conosci, più vuoi scoprire, un Paese di infiniti scorci, impensati luoghi, innumerevoli incontri…che tu dici “Siamo in Italia!” mi risponde lui alzando il calice col vino di un colore rubino intenso, intenso come un vortice e un brivido.
“ Sai com’è questo posto al mattino? Con le sedie ribaltate sui tavoli, le persiane chiuse, la strada di sotto quasi deserta. E’ l’alba dei pescatori, quelli di terra e di mare, quelli che tornano con le barche e quelli di terra che raccolgono le cime. E’ un chiamare e rispondere di voci. E’ come stare sull’uscio. Tra la terra e il mare”
Lo guardo mentre mi parla e muove piano le mani sul tavolo. Penso che se lo meriti quel premio, penso che abbia fatto bene a venire Mario Tobino in Sicilia, ad Agrigento, sulle soglie del Caos e lui il caos lo ha guardato negli occhi spauriti e sperduti. Ha cercato lungamente di addomesticarlo quel caos mentale dei suoi pazienti, delle sue pazienti. Ha dato un nome a quel caos, lo ha ritratto, avvitato su stesso, analizzato, accarezzato, curato.
Ci siamo mossi dal tavolo che il ristorante stava quasi per chiudere, quando di notte, sotto il cielo della Sicilia, ti avvolgi nel profumo dei gelsomini come in uno scialle. Uno scialle di pensieri che quando te lo chiudi sul petto avvolgi il mondo intorno a te con un gesto.
Domani Mario ritirerà il suo premio e avrà occhi pieni di mille richiami, richiami di passato e di presente, di terra e di mare e proverà quasi meraviglia, si volterà e vedrà tutti i suoi ricordi sul molo fermi a guardarlo e ad applaudirlo.
Non so perché un uomo di Viareggio con la passione per l’Italia si debba fermare sul mare africo per sorridere di malinconia.
Questa sera lo ignoro. Ma domani lo saprò.

Marianna Scibetta
Antonio Capitano

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