Si sviluppa sullo sfondo di un’Italia ancora omofoba, pur se diversa da quella di Bassani, Pasolini e Tondelli, il nuovo romanzo di Roberto Pazzi “La trasparenza del buio”, in libreria per Bompiani da un paio di settimane e di cui anticipiamo un brano. Protagonista è Giovanni Caonero, un maturo professore padovano che insegue un sogno d’amore sempre mancato nella sua diversa sessualità. Così in pochi giorni si concede a tre incontri. Ecco allora l’incalzare delle telefonate, degli sms, dello video chat, delle e-mail, in cui si esprime l’ansia di una relazione definitiva. La disperata golosità di chi teme di non aver saputo cogliere quanto della felicità gli spettava, fra divieti e tabù della sua società, cede poi a un sogno ancora più alto, accarezzato tutta la vita, la scrittura di un libro. Un libro verità, a testimonianza di quanto dolorosa fosse stata la ricerca dell’amore, al di fuori delle convenzioni e della morale comune. Roberto Pazzi racconta un’Italia ancora disseminata di divieti e di tabù. La redazione ringrazia l’Autore per l’autorizzazione.
Quella notte, forse perché guidando aveva sentito all’autoradio la Callas, a Giovanni Caonero era apparsa in sogno la scena che per un soffio non aveva vissuto da bambino: Giovanna Sinnott cantava in piazza delle Erbe, a Verona, Gran Dio! Morir sì giovine. La nonna però cantava quell’aria tragica mostrando più la conturbante bellezza di una Carmen che quella della tisica Violetta. E lui non era più il Nane che, fattasela addosso, era stato inondato dell’appestante profumo della nonna. Era il professor Caonero, ordinario di letteratura comparata a Padova, dopo un periodo d’insegnamento a Ferrara, divorziato. E, davanti a una piccola folla, l’accompagnava suonando uno strumento a fiato che succhiava e risucchiava come avesse un dolce sapore. Seminascosto fra la gente aveva scorto il nonno, più giovane anche lui e con tutti i suoi capelli rossi ancora sul capo, vestito da Giorgio Germont. Ma con un’aria ben più minacciosa del padre di Alfredo, e un randello nodoso ritto dietro la schiena. C’era anche la sua cara cuoca, la Nina, nei panni di Annina, cameriera di Violetta, ma seminuda, con le grandi tette ben visibili. Dei suoi fratelli c’era solo Agostino, in abito da sera, nella parte di Alfredo, ma vestito soltanto dalla cintola in su. Abbigliamento adeguato per quel prestante fratello, di cui la giovane moglie di Giovanni aveva voluto saggiare se fosse davvero un maschio tanto dotato, come in famiglia si sussurrava.
COSÌ, col pretesto di una mostra da recensire, era tornato una bella domenica mattina a Verona, spingendosi poi dalla Galleria di Palazzo Forti fino all’Antico Caffè Dante.
Dopo tanti anni le sale, dove alcune anziane signore sedevano a prendere il tè, non erano molto cambiate. Ma non c’era più il telefono a muro, col quale la nonna avrebbe voluto chiamare i vecchi amici. E si udivano invece squillare cellulari dalle più bizzarre suonerie. Sorseggiata lentamente una cioccolata calda al tavolo d’angolo, lo stesso di quando era entrato al caffè da bambino, era uscito invaso a poco a poco dai malinconici ricordi della nonna e della sua vita mancata da artista. Ma all’analogo sentimento di una vita inadeguata a quella desiderata, accarezzando invano da tempo il sogno di scrivere un libro, sapeva almeno di poter opporre, per risollevarsi, un momentaneo piacevole rimedio. E da tanto non se lo concedeva…
All’inclinazione erotica che portava a gustarlo riconosceva l’aprirsi di finestre sulla relatività delle morali che a molti rimanevano a lungo sbarrate. Se ne convinceva a ogni ritorno dai paesi laici del nord Europa. Nei paesi arabi, invece, dove tale tendenza amorosa era proibita, era poi più veloce la corsa alla pratica nascosta. Nella giovinezza aveva patito lo stesso tabù che dava tanto sapore a quella trasgressione nei paesi integralisti. E nella maturità aveva scontato lo stesso affievolirsi del piacere favorito dalla permissività sessuale ormai diffusa anche in Italia. E il rammarico di essersi tormentato per un tabù così effimero lo disponeva da anni, per rivalersi dei troppi perduti, a non privarsi di ogni occasione.
Così, dopo una breve ricerca in rete sul suo Samsung, usando il navigatore, raggiunse con la sua Mercedes l’indirizzo cercato, parcheggiando nei pressi del binario morto di una stazione secondaria.
E proprio là, quella nebbiosa domenica sera di febbraio, nelle calde stanze in penombra della sauna gay, per ironia delle cose vicinissima alla Porta del Vescovo, aveva scovato a Verona il bel Luca.
C’era rimasta ormai poca gente, buttava male. Sentiva le risate dei baristi sfaccendati che, nel silenzio delle sale vuote, scherzavano fra loro.
Un cliente solitario di mezza età pallido e magro, incollato alla tv, ad ascoltare Giuliano Ferrara, stava finendo a lenti sorsi la sua birra, l’aria di chi non avendo fatto sesso non si decideva a rincasare. Passava un barbuto grassone dall’enorme pancia, mal contenuta dal telo da bagno, l’incedere incerto, parlottando da solo. A vederlo pareva che Ferrara fosse sbucato fuori dallo schermo per accomodarsi meglio in una sauna gay. Una coppia di un anziano cicciottello e un giovane arabo, magro e allampanato, si preparava a rivestirsi per uscire.
Un po’ deluso, Giovanni s’era accostato al banco del bar a ordinare una Becks. E se l’era visto all’improvviso seduto accanto, appollaiato su un alto trespolo che non faceva toccare i piedi per terra. Un viso che ricordava Renato Salvatori nella parte di Simone, il pugile fallito e violento di Rocco e i suoi fratelli, dalla mascella forte, capelli corti con incipiente calvizie, ben fatto, i muscoli ventrali a tartaruga. Sui trenta, forse qualcuno di più. Il telo bianco ben stretto alle reni, ma tenuto molto basso, in modo da mostrare la sottile treccia pelosa che saliva su all’ombelico. Gli occhi neri puntati come succhielli addosso. Era lui, il maschio maturo, la preda prescelta.
il libro
La trasparenza del buio, Longanesi