L’infanzia è una ferita che impieghiamo tutto il resto della vita a rimarginare.
Cristiana Pezzetta per il libro di Michele Mari, Tu sanguinosa infanzia.
L’infanzia è una ferita che impieghiamo tutto il resto della vita a rimarginare.
Cristiana Pezzetta per il libro di Michele Mari, Tu sanguinosa infanzia.
Si deve sempre perdere una parte di sé perché la vita continui.
Avevamo conosciuto secoli di grandezza, fortuna e potere. Tempi eroici in cui le fabbriche producevano a pieno ritmo e le città si spingevano fino ai piedi delle montagne, innalzando ponti sopra i fiumi. Avevamo case traboccanti si tesori allora, occhi, tasche stomaci gonfi di ricchezze, figli già sazi appena venuti al mondo.
In quel momento sublime della nostra storia, niente ci faceva paura. Fertili pianure si estendevano a perdita d’occhio tutt’intorno a noi. Le nostre bandiere sventolavano conquistatrici in cima alle torri altissime che avevamo costruito e, accecati dal nostro stesso trionfo, eravamo certi che ogni pietra sarebbe rimasta dov’era in eterno.
Ma un giorno la ruota girò, portandosi via le nostre antiche glorie.
Paolo, il protagonista di questa storia di amicizia e conquiste, è come la Primavera: è una gemma che deve schiudersi. Sono foglie strette le sue, una chiara difesa, ma con delicate parole, Paolo comincerà ad avvertire un calore nuovo e rivelerà quello che ha dentro, i suoi veri colori.
Di colori all’inizio ne ha solo uno e non gli piace. Infatti, in modo quasi segreto, coltiva sogni e interessi, ma ha anche vuoti dolorosi da colmare e paure: tutto questo arriva fuori solo colorando le orecchie, di un rosso intenso. La timidezza di Paolo è la stessa di chi è più riservato e che magari si sente incompreso. Solitamente i ragazzini così sono il bersaglio preferito dei bulli, come il Trio, il gruppetto di prepotenti che prende di mira, appunto, Paolo.
Riscrivere i diari di Etty Hillesum per un pubblico di giovani lettori sarebbe potuta essere un’impresa quantomeno rischiosa, se non addirittura fallimentare per ragioni di diversa natura, non ultima quella dell’età di Etty al momento della stesura dei suoi diari. Era una donna quasi trentenne, nel fiore di un età che si era andata conquistando, in modo assolutamente non convenzionale per quei tempi, e lontana anni luce dai tempi attuali dei nostri lettori e quindi per questo con scarso potere di immedesimazione da parte loro.
Il Male è una parola brutta, che trova volti, storie, catastrofi, da abitare anche senza permesso. Contro il Male combatte Sara a vantaggio della sua sopravvivenza da umana, donna, capace di resistere al buio di ogni nascondimento e alle violenze nel corpo e nell’anima…
Tutto questo accade in una terra affranta e sfigurata, dai predoni, che arrivano da mare, ma anche da quelli che vorrebbero proteggerla a vantaggio di potere proprio. Sara però conosce e riconosce le parole brutte e quelle finte, e non ci sta a soccombere, a arrendersi a regole che non sono sue. E allora cerca la fuga a costo della vita.
Il dolore è una lama che incide e separa, tra dentro e fuori, tra ieri e domani, isolando la vita di Caitlin nello squarcio di uno scatto fotografico, dove l’attimo è tempo perfetto, ma nel quale la vita non scorre più. Ingrid, la sua migliore amica, l’ha lasciata sola, ha scelto di abbandonare la vita, di togliersi la vita. Tornare a scuola, dopo la morte di Ingrid, dopo un’estate passata con i suoi genitori a girovagare per boschi, nel tentativo, vano, di ritrovare quella parte di sé, seppellita insieme all’amica, diventa un’impresa titanica. Caitlin sembra non poter più condividere nulla di ciò che era con un’idea anche solo abbozzata di futuro, per sé e con gli altri…>>
La notizia che le vacanze estive quest’anno Giorgia le trascorrerà camminando, al seguito dei suoi genitori, sulla via Francigena, arriva come la goccia che fa traboccare il vaso. Trecentosettantacinque kilometri e quattrocento metri, a piedi da Lucca a Roma, e, per di più, insieme a un gruppo di sconosciuti e due guide.
Giorgia avverte come il peso di un macigno sul cuore, vorrebbe sapere sorridere, ma non le riesce di essere come Vittoria, la sua migliore amica. E camminare, zaino in spalla, per tutta quella strada, di certo non la alleggerirà.
“Ho saltato la quinta e andrò in prima media. Sono preoccupata per due cose: primo perché io sola avrò dieci anni e le altre saranno vecchie di undici, e poi perché dicono che tutti quello che bisogna sapere si impara in quinta, e infatti io non so niente di storia, di geografia, di pistilli, e mi rimarrà un buco per tutta la vita. Dovrò sempre scusarmi: sapete è perché ho saltato la quinta“.
Le narrazioni ci tessono come fili di trame nelle quali troviamo segni, sguardi, aspetti, parole, visioni che ci fanno sentire parte del divenire, riconoscendo nel disegno unitario qualcosa che ci appartiene, che sta radicata nel nostro intimo, anche quando le storie che vengono narrate sono distanti temporalmente da chi legge.
Cos’ero prima di me?
E dove?
Mi faceva il cielo.
Mi facevo, dico perché, ero niente dentro a tutto quanto.
Ero niente dentro tutti.
Ero tutti e tutto.
Mi facevo il tutto. Proprio.
Mi faceva con le mani la sabbia.
E l’acqua nella sabbia.
Morbida, la sabbia.
Molle la mia forma.
Prima, che è prima di essere me, quando nel tempo Chissadove non ero affatto il centro dell’universo, prima dell’esistere al mondo, dell’essere dato alla luce, prima, appunto, è un dove, da cui muove un gesto, da cui nasce il pensiero e la parola, di me.