Pro captu lectoris habent sua fata libelli: se l’abbiamo trovata in latino, questa celeberrima citazione, potrebbe significare anche che i premi letterari esistono da tantissimo tempo: che un riconoscimento a opere o autori da parte di un collegio di lettori cosiddetti qualificati – giuria tecnica, si dice oggi – c’è dal tempo dei classici o medievali. Ogni libro ha il suo destino, dunque, e la traduzione dell’incipit ci porta alla modernità, ai primi del Novecento, con le apparizioni dei grandi allori letterari tipo Nobel, Goncourt, Fémina, Pulitzer e così via.
In casa nostra: il Bagutta, dal 1926, nato quasi per gioco in una trattoria milanese da una pensata di Orio Vergani; il Viareggio, dal 1929, dall’omonima città versiliese; lo Strega, dal 1947, composto da ben quattrocento Amici della domenica; il Napoli, che coinvolge in dialogo intellettuale e culturale i Paesi che si affacciano sul mediterraneo; il Bancarella, dal 1953, dovuto alla tradizione degli erranti librai pontremolesi; il Campiello, dal 1963, indetto dalla Confindustria veneta, strutturato da dodici togati e trecento lettori a campione tra varie fasce sociali. E così via.
Dal Grinzane-Cavour, nato nel 1982, nel cuore del Piemonte, per avvicinare i giovani alla lettura, abituandoli al gusto dell’esperienza critica, al Piero Chiara, all’Italo Calvino, al Mario Luzi, creati nel ricordo di nostri grandi romanzieri o poeti (senza dimenticare il Brancati, il Flaiano, il Dessì o il Bertolucci, il Comisso o il Montale). Una bella storia fino alla condanna definitiva per Giuliano Soria, ex patron del premio letterario Grinzane Cavour per i reati di peculato e violenza sessuale. Oggi il premio è gestito da persone per bene ma quello che è accaduto, diciamolo, ne ha segnato profondamente la credibilità.
Millecinquanta circa, da una recente statistica, sono in Italia i concorsi letterari che hanno laureato un esercito di autori e una biblioteca di libri, meritevoli più o meno, secondo predilezioni, preferenze, suggestioni o ordini di scuderia. Ciascuno con la propria caratteristica, tant’è che sono stati loro dedicati volumi e saggi, datari e calendari, indici ragionati, ultimo dei quali un tomo di quasi quattrocento pagine che ne elenca una legione: da quelli monocratici – come quello che Geno Pampaloni presiedeva e animava in prima e unica persona a Costa degli Etruschi – a un altro dei tanti, forse men noto, ma che nella sua dozzina di anni di vita è riuscito a contare fino a mille giurati popolari, come l’umbro Fenice-Europa.
Per editi o inediti, per sole donne o soli giovani, per generi specifici (dalla fiaba al fantasy al noir alla ricerca pura): premi d’appello, premi dedicati alla spiaggia del momento, alla carriera, alla memoria e – perché no? – anche anti-premi. In questi tempi imperversano giustamente mille pubblicazioni che inneggiano a cieli limpidi, mari caldi, laghi d’argento e monti dai verdi pendii. Spesso e volentieri, ecco anche il premio (o premiuzzo turistico) a latere delle bellezze naturali. C’è un luogo per ogni premio, o viceversa, specie d’estate, a rappresentare veri e propri temporali letterari, preceduti o seguiti da immancabili polemiche, dichiarazioni, accuse e contraccuse, prese di possesso o dimissioni.
È di qualche giorno fa l’annuncio della prima selezione dell’edizione 2017 dello Strega: un’edizione tranquilla, quasi soporifera e senza polemica alcuna. Come non dimenticare il ritiro polemi co di del giudice datà per vincitore prima ancora dell’uscita del libro nell’edizione 2008 poi vinta da Numeri Primi di Giordano? O la faccia furiosa per aver perso di un solo punto il premio di Scurati a favore di Nesi (se ricordo bene). Guardando l’albo d’oro, però, è pur vero che negli ultimi anni i vincitori appartengono tutti al Gruppo Mondadori (sette vittorie, ripartite tra Mondadori ed Einaudi) e (l’ex) RCS (tre vittorie, due a Bompiani e una a Rizzoli); andando più indietro cambia poco, salvo qualche apparizione di Feltrinelli. Non stupisce allora che ogni anno ci sia una polemica, e di solito, più che dalle piccole e medie, che la gara la fanno sulla dozzina o sulla cinquina, arriva da quelle grandi o dai loro autori che non riescono a centrare la vittoria.
Tra passato glorioso e incerto futuro: questa la sigla più vera che simbolizza l’attuale tempo dei premi. I più bei nomi della letteratura italiana contemporanea figurano nei loro elenchi – anche se di altrettanti bei nomi non c’è ombra né timbro – ma non è, in fondo, che vengano avanti risultati entusiasmanti, dirimenti indicazioni di valore, di canone, di novità.
Ciononostante, sia pure nel loro eclettico riciclaggio di forme e formule, di ingredienti vecchi, nuovi e semi-nuovi, i premi letterari un effetto ce l’hanno, che non è solo quello di promuovere le vendite. Peraltro pare non sia più così, se una comparsata televisiva ottiene una scossa al mercato sconosciuta al giudizio dei critici assegnatari di una qualsiasi corona letteraria o al battimani di invitati alla manifestazione con annesso catering più o meno in piedi e generoso.
Scomparse le originarie e talvolta nobili tensioni di acculturamento (mamma mia che brutta parola!), all’irrompere delle fervide concitazioni del mercato, delle combines editoriali tra boss e camerieri sino alla sempre più frequente indifferenza per i buoni libri (quando ci sono!), siamo a un “c’è posto per tutti” di sottosviluppata e mediatica democrazia culturale.
In una società letteraria sempre più spesso slegata da canoni (sia etici che estetici), spetta ad astute cerchie di selezionatori spingere i testi preferiti verso il si stampi, testi peraltro provenienti da un magmatico e non eccelso flusso di proposte avanzate da scrittori d’ogni qualità e d’ogni latitudine culturale o morale.
I premi non migliorano i libri né chi li scrive: semmai ci sono stati autori e titoli che hanno decretato la serietà e l’obiettività di alcune di queste gare, il loro specifico peso rivelativo, la faticata maturità critica dei loro giurati, il loro coraggio e la loro autonomia dall’industria culturale che ormai fa il bello e il cattivo tempo nel cielo dell’attuale premiopoli letteraria: anche i trecento del Campiello sono scovati, nominati, invitati, dalla longa manus dell’editoria, che li individua su segnalazioni confidenziali e sperabilmente produttive, mentre sugli amici del premio capitolino ognuno può farsi la sua idea seguendo la mondana confusione del Ninfeo di Villa Giulia. Come non ricordare ancora una volta il mio amato Alberto Bevilacqua quando quella sera del 1995 fece vincere Passaggio in ombra di Maria Teresa Di Lascia morta da pochi mesi?
In ogni caso per un premio si lotta, dagli editori agli autori. Se per i primi la ragione è chiara, meno lo è per i secondi. Gloria e/o denaro francamente si eludono: nessuno vive sulla fama di un libro riuscito, sui pochi soldi che esso procura. Si corre e si concorre perché chi vince può dire “ecco, mi hanno riconosciuto, sono il migliore, sono io!”.
Seguiranno articoli, recensioni, interviste e quant’altro a fare di un’ora una piccola eternità se non una carriera. Ma se non servono a molto, comunque non moriranno. Non c’è ancora all’orizzonte chi veramente non li vuole nonostante la “moratoria” di un anno da tutti i premi chiesta da pù parti da molto tempo, BookAvenue compreso.
L’invito è stato ed è naturalmente disatteso.
per BookAvenue, Michele Genchi