Come Susan Sontag ci aiuta a capire il presente

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La cronaca recente ci vede tutti molto occupati a seguire non senza apprensione le vicende di coppia Salvini-Di Maio e di che fine faremo, invece che volgere lo sguardo a quello che accade in medio oriente dove, Trump prima di altri e a seguire il capo del governo israeliano, sono molto occupati a dare fuoco alle micce di bombe che potrebbero anticipare la fine del mondo di qualche migliaio di anni.

Si sa che l’attuale inquilino della Casa Bianca guarda un sacco di televisione, proprio come il resto di noi. Diversamente da noi però, e in risposta alla visione di alcuni servizi giornalistici sulle vittime di un bombardamento di armi chimiche a Khan-Sheikhoun a inizio Aprile durante la martoriata guerra civile in Siria, Donald Trump ha lanciato una sessantina di missili da crociera sulle regioni settentrionali del paese.

Secondo il Washington Post, il presidente si è particolarmente commosso per le terribili immagini televisive.  “Nessun figlio di Dio dovrebbe mai soffrire un tale orrore”, ha detto.  Questi, sono gli stessi figli di Dio cui ha vietato l’ingresso negli Stati Uniti come rifugiati con un preciso ordine esecutivo.  Lo staff del presidente, leggo dal  sito del più importante quotidiano americano, riferisce che l’inquilino dell’ufficio ovale ha chiesto di essere informato principalmente tramite immagini e grafici. A quanto pare, è troppo occupato perché legga.

Un altro lettore per immagini dev’essere senz’altro Netanyahu che ha reagito agli attacchi di missili lanciati dalla Siria contro posizioni israeliane con altrettanti attacchi di rappresaglia. E’ successo in questi giorni. Mentre l’Onu, esorta le parti a porre fine immediatamente a tutti gli atti ostili, mezzo mondo sta scaricando il proprio arsenale di guerra sulla popolazione inerme che ha avuto la sfortuna di nascere in quei territori, in una sorta di gara a chi ne tira di più con l’opaca resistenza dell’UE e della comunità internazionale e con una sola voce che urla: quella di Papa Francesco, l’unico ad avere un po’ ragione e buon senso.

L’impatto delle immagini sulla politica mondiale non è mai stato più potente. La scelta di intervenire in Siria si svilupperà inesorabilmente nei mesi e negli anni a venire. Dopotutto, il governo israeliano sembra voler chiudere i conti con i nemici della nazione senza indugio alcuno visto la ritrovata sintonia con quello americano  privo di alcuna voce critica (leggi, Obama). Ciò che ci dovrebbe preoccupare, però,  è come la decisione di intervenire sia stata presa dal Biondo Comandante.

Le immagini di sofferenza e atrocità di quello che accade nel mondo ci raggiungono senza filtri e scuotono le nostre misere coscienze. Come dimenticare Aylan, il bimbo siriano rimasto ucciso sulla spiaggia di Boudrum in Turchia dopo che la zattera di gomma con la sua famiglia si è rovesciata nel settembre del 2015? Nel video, la schiena del bambino è rivolta verso la telecamera; la sua posizione è stranamente familiare a chiunque abbia mai controllato un bambino che dorme nella sua culla. Più ci spostiamo rapidamente verso l’orrore e il disgusto, più dimentichiamo altrettanto rapidamente, mentre una serie infinita di nuove immagini richiedono la nostra attenzione. Dobbiamo gestire più informazioni attraverso le immagini, e questo rende il nostro rapporto con la compassione, la rabbia e il senso d’impotenza suscitati da queste immagini sempre più complesse.

“La compassione è un’emozione instabile che deve essere tradotta in azione, o appassisce”, ha scritto Susan Sontag nel suo volume, “Davanti il dolore degli altri”, pubblicato da Mondadori una vita fa, nel 2003 cui si sollecita una veloce ristampa mentre registro, purtroppo, che tutta l’opera della grande autrice sembra essere fuori dagli interessi editoriali del momento.

Il saggio sembra scritto ieri. La grande intellettuale ci fa notare come siamo vulnerabili alle immagini proprio quanto lo siamo alla propaganda. La nostra esperienza riguardo la visione d’immagini violente è cambiata non solo a causa della velocità senza precedenti della loro trasmissione, ma anche perché non c’è più alcuna mediazione tra queste immagini e chi le guarda. Le tragedie di oggi, infatti, si guardano in streaming e se abbiamo accesso alla tecnologia, possiamo condividere direttamente con altri le immagini in tempo reale. Tuttavia, poiché c’è molto in termini d’input ricevibili cui rispondere, abbiamo un’instabilità emotiva proporzionalmente più forte.

La nostra capacità di compassione è cambiata? E’ davvero così instabile? E qual’è il rapporto tra la compassione e azione? Le fotografie sono importanti per aiutarci a capire gli orrori della guerra, ma non sono abbastanza.  Abbiamo in genere due modi sconsiderati di rispondere alle immagini di atrocità, secondo Susan Sontag: agire impulsivamente o, peggio, intorpidirsi ai sentimenti evocati dalla vista di dolore e sofferenza.  E la domanda urgente rimane: come possiamo – come dovremmo – pensare a queste immagini?

La decisione del presidente americano è stata di aggiungere atrocità ad atrocità. Il giorno dopo che Trump ha ordinato il lancio dei missili sul suolo siriano, un portavoce della Casa Bianca ha affermato che il presidente stava rispondendo “come padre e come nonno”, leggete bene: “ come padre e come nonno”. Questo, credo, non sarebbe stato accettabile per Susan Sontag come non lo è per molte persone con un po’ di buon senso. È la vecchia favola della fragilità umana. Trump non è immune.
Uno dei punti focali del libro sta nel registrare la nostra pulsione alle immagini violente. Accade, cioè, che non dovremmo e cerchiamo di non guardare, poi lo facciamo vergognandoci di aver ceduto a quell’impulso. Nel libro si racconta la storia di Leontius, figlio di Aglaion, della Repubblica di Platone, che è così inorridito dalla sua morbosa voglia di guardare che maledice i suoi stessi occhi.

Si pensi alle macchine che rallentano il traffico per chilometri a causa di un incidente a bordo strada. Come rileva Susan Sontag, “Quando si discute sull’effetto delle immagini delle atrocità, bisogna tener conto anche di questo impulso.”  Può esserci un piacere segreto e perverso suscitato da immagini di violenza che non si basano unicamente sul sollievo nel sapere che non si è il corpo compresso nel metallo contorto nella corsia. Sontag chiama questo fenomeno come una sorta di piacere ributtante. Ma agire quasi di “pancia” come ha fatto Trump, non è esattamente un’azione che ci si aspetta dall’uomo più potente del mondo, e intraprendere qualsiasi azione basata su delle emozioni, apparentemente non meditate, mostra una pericolosa mancanza di riflessione. Ma le guerre sono questo; sono solo questo. Pancia e sangue. Sontag è sospettosa del potere di una compassione non riflessiva che spinge gli individui verso azioni sconsiderate – come lanciare missili o scaricare bombe, aggiungo. Dopotutto, è quello che è accaduto.

Ancora. Si consideri il caso di Abdel Hameed Alyousef, il padre la cui foto che culla i suoi due bambini morti nell’attacco chimico di cui sopra, diventato un altro emblema della sofferenza della guerra siriana. Alyousef è ripreso mentre seppellisce i suoi figli, la moglie e altri membri della famiglia vittime dell’attacco chimico del presidente Assad. Se la fotografia di Alayn è diventata un emblema della sofferenza, il video della sepoltura della famiglia di Alyousef offre agli spettatori la narrazione in divenire del dolore in diretta.

Nel libro, Susan Sontag si chiede se lo shock generato dalle cose che vediamo abbia limiti di tempo. Tenta una spiegazione riguardo a come ci si può abituare all’orrore nella vita reale e come si può abituarsi all’orrore di certe immagini. La narrativa, secondo la scrittrice, opera diversamente dalle immagini fisse. Possiamo vedere la stessa rappresentazione, opera o film, leggere lo stesso libro e piangere allo stesso momento e modo ogni volta. Potremmo tornare a una particolare parte di una narrazione che ci ha toccato nel profondo a causa di quel desiderio. Noi …vogliamo piangere. Questo godimento è il risultato del pathos che la situazione genera, il radicamento dell’empatia. Susan Sontag non usa la parola “empatia” preferendo il termine “compassione” che, alla luce di quello che accade, sta diventando merce rara.

È facile interpretare l’ascesa di Trump come una alchimia tra politica e intrattenimento, sembra essere il segno distintivo di questi anni tristi e non mancano alcuni esempi anche nel vecchio continente. Nel caso della Siria, Trump è stato toccato da ciò che ha visto, e anche se penso che non abbia preso la decisione giusta, dobbiamo tutti prestare molta attenzione a come ha reagito alle sue emozioni. Non è che il mondo può essere in balìa dei mal di pancia del presidente americano!

Susan Sontag vuole che ci fermiamo ed esaminiamo la nostra empatia con il disincanto di un chirurgo, non solo perché dobbiamo cercare la giusta azione secondo un sentire comune per dirla con le parole di Gramsci, ma perché possiamo, dobbiamo, evitare la nostra stessa complicità. Quando clicchiamo sugli schermi dei nostri telefoni o computer, Susan Sontag ci sfida a essere più che guardoni. Ci invita a essere testimoni.

Manca al mondo, Susan Sontag. Peccato non ci sia più

 

per BookAvenue, Michele Genchi

Davanti al dolore degli altri, trad. di Paolo Dilonardo, Mondadori, Milano, 2003

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