Paul Auster, 4321. Cronaca di una sfida

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Questo articolo è stato pubblicato in ottobre 2017. Lo ripubblichiamo a favore di una rinnovata lettura. Ndr.

Recentemente, in occasione della presentazione a Madrid del suo ultimo lavoro 4321, oggetto di questa cronaca di lettura, Paul Auster ha dichiarato che Trump è “un maniaco psicopatico, pericoloso per gli Stati Uniti e per il mondo, un uomo incapace di leggere un libro“. La sua dichiarazione è stata salutata con favore e fervore dagli ambienti liberal americani e contestato aspramente, ovviamente, da quelli del tea party. L’America che amo è finita il 9 novembre 2016; quello che rimane del Paese è spaccato in due parti che si fanno la guerra in continuazione incuranti che il loro controverso presidente stia per scatenare la terza guerra mondiale. Come i polli di Renzo nei Promessi Sposi. Uguali.

 

Non fa niente se in Nord Corea c’è un altro malato di nervi pronto a premere il bottone rosso per primo. Si badi bene: la malattia di Trump sta costringendo il mondo intero a fronteggiare questioni che Obama aveva risolto e che sono rimesse in discussione in nome di un inedito isolazionismo di un paese che ha guidato le sorti del pianeta negli ultimi settant’anni.

Ma qui non è solo questione dell’elezione di un ricco Tycoon (più simile a Briatore che a Berlusconi: ce ne fosse…) all’impiego pubblico più difficile che ci sia degli Stati Uniti. Nel suo nuovo grande in senso “biblico” libro, c’è il tentativo di fondo di fare la cronaca del XX secolo americano (il libro finisce con l’elezione alla presidenza di Ford e di Nelson Rockefeller suo vice-presidente, del 1974).

L’impegno, come ben comprenderete, sfida diverse leggi di gravità. La prima, è l’inevitabile confronto con i maestri del romanzo “panoramico” americano: Roth, De Lillo, Wolfe senza scomodare Hemingway e solo per citarne alcuni. L’altro è la sfida con la quantità: stiamo parlando di un libro che nell’edizione originale pesa quasi un chilo, a testimonianza della scommessa dell’autore di misurarsi con il “grande romanzo classico americano” prendendo a modello non solo Dickens, citato nel libro, ma anche di altri autori classici non esattamente di scuola americana come Von Kleist.

Ma la madre di tutte le sfide è stata, per me, quella con la lingua; il mio inglese assai poco fluente ha rappresentato un limite grave per scalare tutte le 664 pagine del libro e riuscire pure a capirci qualcosa in sei mesi.

Tuttavia, penso che Jonathan Franzen, in Libertà, abbia saputo declinare con grande efficacia lo sguardo famigliare sugli eventi del Paese e del mondo ma, a causa delle sfide prima descritte, non ho forse saputo riconoscere una autentica e rinnovata – più fresca, per capirci – interpretazione del secolo americano in 4321. Anzi, sconsiglio vivamente i lettori di affrontare il libro con lo sguardo alla storia proprio perché priva, secondo me, di questa caratteristica imbottita, invece, di eventi Yankee: dal Vietnam a JFK, al movimento dei diritti civili, le Pantere nere eccetera eccetera.

Culturalmente parlando, siamo già stati messi alla prova con il secondo terribile mezzo secolo americano. Fossero bastati gli anni ’60 con il Vietnam, ma il mio autore preferito mi (ci) conduce in una decisa marcia forzata. Ogni libro che viene scritto è una forzatura verso il tempo necessario per leggerlo; tempo che ci viene chiesto di impiegare a scapito dello “stock di magazzino”, termine librario per intendere la quantità di libri disponibili sugli scaffali della libreria di casa, ricchi di capolavori che riteniamo tali, la cui lettura riempie ogni singola vita umana.

Il sospetto della presunzione autoriale è più forte quando il libro in questione è un “mattone” e i lettori non hanno altro da leggere dal proprio beniamino da sette anni! Qui ci sono 50, dico 50, pagine per iniziare con la storia dei nonni di Archibald che dalla Russia emigrano negli States a inizio secolo e di come il nome Reznikoff diventa Ferguson come suggerito dall’agente dell’immigrazione a Ellis Island: “you need an American name for your new life in America…“.

Il romanzo di Paul Auster, inizia con un semplice racconto della storia del nonno del protagonista, suo eroe. Ma, sorpresa: non c’è solo un eroe; ce ne sono quattro, tranne che scoprire che sono tutti lo stesso eroe.”Da quel singolo inizio, la vita di Ferguson prenderà quattro percorsi immaginari simultanei e indipendenti. Quattro identici Ferguson fatti dello stesso DNA, quattro ragazzi che sono lo stesso ragazzo, continuano a condurre quattro vite parallele e completamente diverse.

È così. Archie Ferguson nasce un giorno nel 1947 e poi, per ragioni che diventano chiare solo 600 pagine più avanti – la sua vita viene raccontata in quattro filoni narrativi. Questo potrebbe essere un “plot” intrigante, ma abbiamo un problema: non è che Archie Ferguson sia un personaggio molto interessante; peggio, è che sono quattro personaggi non molto interessanti.

Ho cominciato quasi immediatamente a prendere appunti mentre leggevo. Appena letto il percorso attraverso l’infanzia del bambino, nel capitolo 1.1, l’orologio è come invertito e devo ripercorrerlo nuovamente nel capitolo 1.2, dove trovo, diversamente scritte, nuove testimonianze su ciascuno dei quattro “rami”. Confesso: sono stato in grande difficoltà; ho speso un mese solo per questi due capitoli.

Diciamolo. Questa struttura potenzialmente noiosa incoraggia la riflessione su come è meglio leggere il libro: in modo lineare o in una combinazione alternativa che rende le linee narrative parallele più digeribili. Dopo aver letto il capitolo di apertura di ogni vita di Archie, ho optato per seguire il primo Archie fino alla fine: la Columbia University e una carriera in erba a tradurre la poesia francese. Il libro è senza indice: trovare il filo è stata una impresa.

Solo allora sono tornato indietro per scoprire quali altri Archie c’erano: due, tre e quattro, e le loro vite.

Ci sono sovrapposizioni: una ragazza chiamata Amy Schneiderman appare nel romanzo come se lei e (i) Ferguson sono intrecciati da un Karma gigante e i quattro Archie abbondano di aspirazione letteraria, provando a variare le loro (otto) mani dal romanzo, alla poesia e il giornalismo.

Questo romanzo è “spesso” e sa essere “pesante” e ho rischiato di lasciar perdere in più di un’occasione; ho letto con entusiasmo immutato praticamente tutta la produzione di questo grandissimo autore. Come tale, ha realizzato molto e generalmente si pensa che abbia altrettanta responsabilità nel soddisfare i suoi lettori affezionati come il sottoscritto. Ma, il suo tentativo autocosciente di scrivere il grande romanzo americano manca di una visione acerba che ha reso così affascinante, dicevo prima, Libertà di Jonathan Franzen. Buon per lui, mi viene da dire, ma sembra aver perso di vista il male, la malizia, o degli elementi di suspense (si legga il godibilissimo Invisibile o, indimenticabile, il personaggio del nipote del protagonista nella libreria di Park Slope in Follie di Brooklyn!) – che avrebbero potuto rendere più nitido questo romanzo lento da morire. Come il mio inglese, dopotutto.

 

Il suo tentativo autocosciente di scrivere il grande romanzo americano manca di una visione acerba che ha reso così affascinante Libertà, di Jonathan Franzen.

 

Da quando ha pubblicato la trilogia di New York (Città del vetro, Fantasmi e la Stanza chiusa), Paul Auster ha messo a punto il suo lavoro con dispositivi meta fiction – termine editoriale per definire un romanzo nel romanzo spesso inserendosi come un personaggio (la passeggiata mattutina dell’11 settembre del protagonista alla fine di Follie, non può che essere egli stesso), storie di storie e così via, che lo hanno portato ad essere il più importante tra i Postmodernisti americani. E per questo meritevole del Nobel.

Ma Auster è sempre stato in lite con il postmodernismo. (“Ferguson si addormentò e sognava di sognare di essere morto“, è Auster che scrive come Auster che scrive come Borges). La sua popolarità non è nella distribuzione di trucchetti di scrittura, ma in quella più tradizionale delle grandi virtù letterarie: può fare quello che vuole (con e) dei suoi personaggi. Più della sperimentazione, la fedeltà più profonda di Auster è alla storia. E sebbene le sue regole narrative ottengano un sacco di spazio ed esercitazioni nel, mi si passi il termine, lungo raggio di 4321, la estenuante lunghezza del romanzo finisce col far mancare la qualità più squisita del suo lavoro migliore: il ritmo.

Questo libro è molto più lungo di qualsiasi altra cosa che Auster abbia mai scritto prima, e anche se ci sono risonanze tra gli “scontri” degli Stati Uniti tra la metà del XX secolo e la sua crisi attuale, questo non è un romanzo per i nostri tempi.

Tocca agli Stati Uniti decidere il destino degli Stati Uniti.
L’Europa è abbastanza presa dal proprio e, a ben vedere, con un sacco di problemi: dalla Brexit alle nazioni dell’est che si scoprono xenofobe dopo essere state affamate per decenni -nel vero senso della parola- prima ancora di libertà dalla dittatura dell’impero dei Soviet; la stessa libertà che consente loro, oggi, di sputare nel piatto dove mangiano.

Stia attento il signor Trump: la quarta guerra mondiale la combatteremo con gli stuzzicadenti. Nel frattempo, aspetto la traduzione in italiano.

 

Per BookAvenue, Michele Genchi

 

Paul Auster, 4321, MacMillan 2017

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