Funambolico Everett: “Metto dentro tutto quello che leggo”

Non Sono Sidney Poitier
   Tempo di lettura: 6 minuti

Non Sono Sidney Poitier

Libro del mese / Novembre. «Uno scrittore non spreca mai nulla» diceva Francis Scott Fitzgerald. Si può dire lo stesso di Percival Everett e della sua ultima opera pubblicata da Nutrimenti e tradotta da Marco Rossari. L’autore 54enne, 19 romanzi in patria, docente d’inglese e scrittura creativa alla USC di Los Angeles, non spreca una pagina, una riga, una parola. Nulla. Non Sono Sidney Poitier però non è solo un romanzo. Non è nemmeno un esperimento. È un segnale.

Se «Twain, nella narrativa, e Whitman, nella poesia, risolsero definitivamente con il loro linguaggio il debito con l’Inghilterra» ─ come sostenuto da Claudio Gorlier in Centouno capolavori americani ─ forse oggi si può dire che l’opera di Everett propone un nuovo linguaggio a quella cultura statunitense che troppo spesso ha preferito temporeggiare sulle indicazioni ricevute da una parte di sé, “scomoda” ma fondamentale, come la narrativa afroamericana.

Un tema delicato che una situazione comica spiega meglio di qualunque teoria letteraria: che cosa significa essere un ragazzino di colore nell’America degli anni Sessanta? Per di più ricco, ricchissimo, e addirittura attraente, anzi, identico a Sidney Poitier? E come se non bastasse, cosa succederebbe se vostra madre decidesse di battezzarvi come ciò che non siete, cioè con un nome (Non Sono Sidney) che spiega chi non siete?

Mi ha erudito su come gli inglesi avevano perso un impero probabilmente perché rimanevano di stucco quando si accorgevano che i popoli colonizzati li detestavano. Mi ha insegnato che l’America predica la libertà eppure non permette a nessuno di essere diverso. (pag.16)

 

Nascere dopo due anni di gravidanza isterica, rimanere orfani ma grazie alla madre ritrovarsi in tasca la maggioranza azionaria di un network televisivo (la CNN); essere adottati dal suo inventore (Ted Turner) e lasciare Los Angeles per Atlanta; crescere nell’agio più sfrenato ma prendere un sacco di botte a scuola; non sapere cosa fare della propria vita ed essere ogni giorno più simile all’attore Sidney Poitier. La vita di Non Sono Sidney, ragazzino «non particolarmente intelligente, ma molto istruito», è condizionata non solo dal nome stravagante ma da qualcosa di nettamente più comprensibile, il colore della sua pelle.

Basta poco per finire in galera, basta essere un «negro». È solo la prima di mille avventure. Subisce molestie sessuali, abbandona il liceo, si compra l’accesso al college più esclusivo, viene continuamente isolato e incontra un docente di «filosofia dell’assurdo» che lo avverte: «Rimanga se stesso». Consiglio interessante ma il problema, appunto, è scoprire chi si è. La cosa non è affatto semplice. C’è bisogno di un particolare invito a cena, nella divertentissima ricostruzione del film di Kramer, per capire quanto scura possa essere non solo la pelle, ma la condizione umana.

“Bada a come parli, negro”, ha detto. “Violet, guarda che io e te siamo più o meno dello stesso colore”, ho detto. “Nossignore”, mi ha rintuzzato, “io sono cioccolato al latte e tu sei nero cacao, nero come Satana”. Ero allibito. Forse rattristato, in qualche modo spaventato, ma sopratutto allibito. (pag.165)

 

L’autore Percival Everett
Percival Everett

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Contenuto aggregato da Àlen Loreti per BookAvenue.

Facile avvicinare alcuni passaggi del romanzo al Giovane Holden di Salinger, ma l’occhio più azzurro di Everett mostra l’abilità di chi sa riprodurre in chiave comica il paradosso e il disorientamento provocato dal definirsi ciò che non si è, popolando le divagazioni oniriche del protagonista con atmosfere coloniali e discriminazioni aberranti. Se fossi un libraio, certo maldestro e atipico, metterei questo romanzo tra il capolavoro di Ralph Ellison, L’uomo invisibile, e uno dei testi fondamentali di antropologia culturale di Francesco Remotti, Contro l’identità.

Se nel 1952 Ellison mostrò con il suo romanzo l’invisibilità sociale, culturale e politica dei neri d’America, oggi Everett con la storia di Non Sono Sidney Poitier (ambientata nel 1968, anno caldo della contestazione e dei riots) propone e attualizza il tema dell’identità «spesso concepita come qualcosa che ha che fare con il tempo, ma anche, e sopratutto ─ come dice Remotti ─, come qualcosa che si sottrae al mutamento, che si salva dal tempo».

Il tempo, eccolo. Centoquarantasei sono gli anni che separano l’abolizione della schiavitù (1863) dall’elezione di un uomo di colore alla Casa Bianca (2009). Il percorso civile dell’America non è affatto concluso, anzi, sembra a malapena cominciato. In questo organismo narrativamente modificato dove trama, dialoghi e personaggi si mescolano in un curatissimo nonsense, lo scrittore americano mostra il lungo elenco di confini (geografici, sociali, razziali e psicologici) che impediscono alle persone di comunicare in profondità conservando la propria individualità. Un romanzo che ci ricorda come sia necessario continuare a sfidare i mulini a vento.

Àlen Loreti per BookAvenue

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2 commenti

  1. Grazie a te, Michele!
    Anche per la bella telefonata dell’altro giorno.
    A Roma, a Roma! 🙂

  2. Mi hai convinto: lo leggo.
    grazie!

I commenti sono chiusi.