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di Michela Murgia
A vedere l’ultimo film di Bellocchio ci sono andata più che ben disposta. Sono sensibile al tema e L’ora di religione a suo tempo mi era molto piaciuto. Peccato: stavolta ho buttato via i soldi e mi resta il rammarico di una bella occasione mancata. Bella addormentata, al di là delle velleitarie dichiarazioni di complessità della trama, appiattisce e semplifica tutte le sfumature a cui il tema obbligherebbe l’intelligenza. Bellocchio abdica alla complessità nel momento stesso in cui sceglie rozzamente di rappresentare la fede come una nevrosi e i suoi punti di vista come devianze soggettive.
Lo fa male attraverso il personaggio di una madre squilibrata e ossessiva che assiste una figlia attaccata a un respiratore. Lo fa malissimo attraverso il personaggio di una ragazza che si butta sulla fede per attutire la perdita della madre e la rabbia verso il padre che crede responsabile. Lo fa ancora peggio, e con deliberata volontà di mutilazione storica, quando sceglie di mettere in scena intorno a Eluana solo i cattolici con le loro bottigliette d’acqua, le loro candeline accese e i salve regina lagnati in cori ottusi. Dove sono gli atei devoti che chiesero di portare quelle bottiglie e fondarono partiti alle elezioni per cavalcare quell’emotività? Che fine hanno fatto gli onnipresenti radicali, sempre con un microfono davanti per fare di ogni caso umano una battaglia d’esempio? Nel film di Bellocchio appaiono solo due parti in causa: da un lato l’isteria cattolica che nega l’autodeterminazione per ragioni sempre insensate, che ferma le ambulanze per strada e grida sguaiata “E’ un omicidio”; dall’altro la resistenza composta di chi difende la scelta libera, raffigurata dignitosa e dubbiosa, ponderata, quella sì davvero complessa. Questa bidimensionalità, dove la fede è solo paresi civile, si nutre di didascalismi continui.
C’è la ragazzina del Movimento per la vita che va a letto con il ragazzo appena conosciuto, ma non prima di essersi voltata il rosario sulla schiena come forma di ipocrisia low cost. C’è la madre afflitta che si guarda continuamente allo specchio per compiacersi dell’efficacia scenica del suo dolore. C’è la figlia, bellissima ragazza comatosa a cui Bellocchio applica la falsa estetica del dolce sonno, forse senza rendersi conto che quella della morte che ti fa bella è la stessa retorica a cui fa appello Berlusconi quando dice: “Mi dicono che la ragazza abbia ancora il ciclo mestruale attivo”. Il dato di trama più implausibile di tutti, per colpa non certo del bravissimo Servillo, è che c’è un senatore del PdL vittima di crisi di coscienza, e lo dico senza ironia alcuna. Gli attori sono quasi tutti straordinari, ma il film è lento, con scarti minimi a dispetto delle molte vicende intrecciate.
La più scontata di tutte è quella della ragazza tossica, guidata da una violenta volontà autodistruttiva ma ogni volta salvata da un giovane medico idealista, fino a quando lei stessa, riportata alla voglia di vivere da un solo bacio gentile datole dal principe in camice bianco, non rinuncia sua sponte a gettarsi dalla finestra, regalando alla sala un finale telefonato con predicozzo sottinteso: chi vuole morire spesso è solo poco amato. Questo è il massimo della complessità del film: tutto il resto è noia.
Michela Murgia