L’opera di Virginia Woolf non ha mai smesso di scuotere, probabilmente fin dal giorno della sua creazione e sicuramente fino ai nostri giorni. Si parla della sua influenza nel saggio Palinsesti woolfiani. L’influenza di Virginia Woolf nei romanzi “Light” di Eva Figes e “The Hours” di Michael Cunningham (2012, Edizioni Il Foglio). L’autrice, Daniela Neri, nata in Italia e inglese d’adozione, offre un approfondimento puntuale ed esaustivo in particolare sulla scrittura woolfiana rielaborata da Eva Figes (Light) e da Michael Cunningham (The Hours). In una suggestiva cronistoria passa in rassegna i palinsesti più noti della letteratura (secondo la definizione di Gerard Genette e il concetto di intertestualità proposta da Julia Kristeva) e analizza le opere delle scrittici e degli scrittori che hanno adottato l’ipotesto woolfiano.
Senza la sua ricerca e la sua lotta per un ruolo diverso della donna all’interno della società e in primis nel contesto culturale, non avremmo avuto i saggi femministi di Eva Figes (Patriarchial Attitudes, 1970) e di Kate Millet (Sexual Politics, 1971), per citarne solo due. Incisivo è stato il suo contributo sperimentale in ambito letterario, mai distante dall’impegno politico. Ha elaborato una modalità di scrittura che potesse dirsi finalmente femminile nel ritmo e nelle percezioni espresse. La woman’s sentence , afferma l’autrice nel saggio, è “una frase femminile densa di echi e associazioni, musicale, capace di abbracciare le forme più vaghe, allusiva e simbolica”.
Nella scrittura postmodernista di Virginia Woolf scompare l’intreccio lineare, il discorso si frantuma, si procede per epifanie, durante un flusso di coscienza perenne. Il dettaglio insignificante del quotidiano conquista uno spazio luminoso e poetico interiorizzato, senza più contatti concreti. In fondo è il tempo che muta le cose, è la transitorietà che fa prendere coscienza degli attimi che non ritornano. La frase si fonda ora sull’inconscio, complice l’affermarsi della psicoanalisi.
Virginia Woolf scava nei personaggi femminili, specialmente artiste, evidenziando la scissione dei ruoli tra arte e vita, che risalda parodicamente in Orlando. E a questa ritrovata unione (auspicata da Coleridge per l’artista, che non può considerarsi né uomo né donna) si ispirano le scrittrici sperimentali Djuna Barnes e Kathy Acker, che utilizzano protagonisti ermafroditi e, come Virginia Woolf, violano le leggi della verosimiglianza temporale, scardinando l’ordine social-patriarcale.
Daniela Neri spiega le similitudini tra la scrittura dell’indiana Anita Desai e Virginia Woolf e tra questa e Sunetra Gupta, altra scrittrice della diaspora indiana. Altro debito evidente, ci ricorda, appare in Anita Brookner, secondo cui la scrittura “salva dalla realtà della vita”. Echi woolfiani sono presenti inoltre in Carole Maso e Marilynne Robinson.
Eva Figes esplicita la passione per Virginia Woolf nel romanzo Light, il cui protagonista non a caso è un pittore impressionista, Claude Monet (i quadri impressionisti suggeriscono, non definiscono e soprattutto fotografano l’anima nell’introiezione dell’immagine rappresentata). Del resto, suggeriva Virginia Woolf, “La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente. La vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci circonda dall’alba della coscienza fino alla fine.” Anche nell’opera della Figes è l’attimo epifanico a dettare la coscienza, il gesto effimero che, compiuto, fa comprendere la bellezza presente nel fluire. In Light sono tre i modelli che costituiscono l’ipertesto: The Waves, Mrs Dalloway e To The Lighthouse, a dimostrazione che l’opera woolfiana permea completamente la scrittura, se pur rielaborata e contestualizzata come un ipertesto richiede.
Non mancano gli scrittori che si sono riconosciuti nell’opera woolfiana: l’irlandese Brian Moore tratta il tema della pazzia in tandem con la memoria (tema caro anche a Michael Cunningham in The Hours). Robert Ferro omaggia la Woolf con il romanzo Second Son (1988) e Michael Cunningham arriva a dichiarare che la lettura di Mrs Dalloway gli ha lasciato dentro il ricordo forte e intenso di un primo amore. Quindi non può far altro che dedicarvi un romanzo: The Hours. Il libro ha avuto un’ottima trasposizione cinematografica, per la regia di Stephen Daldry, con l’interpretazione di tre grandi attrici: Nicole Kidman (Virginia Woolf), Julianne Moore (Laura Brown), Meryl Streep (Clarissa Vaughan). Il risultato è che Virginia Woolf è arrivata fino a noi con un’operazione ancora più incisiva della scrittura, se non altro perché ha abbracciato anche un pubblico di non lettori.
La scrittura woolfiana continua ad influenzarci ora più che mai, in un’epoca che ha bisogno ancora di riappropriarsi di un modo diverso di concepire la donna (soprattutto in Italia), in luoghi e tempi diversi, con modalità e bisogni simili. Una possibilità che è data soltanto da una rinascita culturale e dalla scelta libera di accedervi, riecheggiando le parole di Virginia Woolf.
per BookAvenue, Rosa Manauzzi