Freelander, la “forza epica” di Miljenko Jergović

   Tempo di lettura: 14 minuti

Miljenko Jergović  Un Nobel preventivo ─ Qualche settimana fa su L’espresso Marco Belpoliti chiudeva così la recensione a Freelander, il romanzo di Miljenko Jergović: “un libro che non si dimentica”. Da un conservatore di memorie come Belpoliti, curatore dell’opera di Primo Levi, quella frase mi ha molto incuriosito. Non era il solito invito alla lettura mascherato da marketta. Era un avvertimento reale, un indice alzato. Immaginavo una trappola costruita sulla bontà del giudizio. Mi sbagliavo. Era solo bravura, dannata bravura, seminata con sapienza lungo 174 pagine.

Il talento di Jergović tra qualche anno potrebbe far compagnia a Orhan Pamuk e Günter Grass. Magari grazie alla Volvo del protagonista di questo romanzo, secondo capitolo di una trilogia dedicata all’uomo e all’automobile, che si pone tra Buick Riviera (già uscito per Scheiwiller nel 2004) e Volga, Volga (in attesa di una traduzione italiana). Ma lo scrittore bosniaco, pur avendo ricevuto il Grinzane Cavour nel 2003, è sconosciuto ai lettori italiani quanto basta per essere premiato dall’Accademia Svedese? Sì. Vincerà perché è pubblicato da Zandonai, piccola editrice trentina, come capitò a Keller con Herta Müller? Sì. Sarà celebrato perché Claudio Magris lo ha definito “uno scrittore epico”? Sì. Questa è una recensione obiettiva? No. È un’infatuazione oggettiva… per un Nobel preventivo, appunto.

Zagabria-Sarajevo, solo andata ─ Karlo Adum è un professore di storia in pensione, vedovo, abita da solo al sedicesimo piano in un palazzone di Zagabria. Un giorno la sua molle quotidianità è scossa da un telegramma spedito da Sarajevo, la città dove è cresciuto e che non vede da oltre 50 anni. Quel pezzo di carta nasconde un mistero e il solo modo per svelarlo è partire. Non sa cosa aspettarsi, il postino gli procura una vecchia pistola e duecento proiettili che nasconde nel fondo della valigia. Pilotando una Volvo arancione del 1975 ─ “non gli era rimasto nulla al mondo di più caro”─ il professor Adum parte verso la città da dove era scappato appena tredicenne; una città-simbolo cucita come un bottoncino nero sull’insanguinato mantello del Novecento.

Quella Volvo l’aveva tenuto fermo al tempo in cui era un trentacinquenne professore di storia, l’aveva ancorato a quelle stagioni della vita da cui tutti gli esseri umani, croati e cattolici compresi, dovrebbero una buona volta uscire, per cominciare a respirare. A costo di dover morire il giorno dopo, ma da uomini liberi. (pag.42-43)

Il demone del ricordo ─ Mentre il professor Adum guida verso la capitale bosniaca, milioni di pensieri lo guidano altrove. L’infanzia di tribolazioni con la madre che frequenta i nazisti, la morte accidentale di un bimbo ebreo che a scuola lo stuzzica continuamente, la folle rabbia del padre senza un pollice per colpa dello stesso zio che ora gli promette una eredità, la propria carriera universitaria stroncata da una discriminazione, il dolcissimo ricordo della moglie la cui scomparsa accentua tutto l’amore che non è stato capace di esprimere. Jergović crea attorno al suo personaggio un mondo vitale e inquietante dove la tensione drammaturgica emerge nelle varie forme del dolore: il dialogo in ospedale tra il professore e la madre ammalata di Alzheimer incapace di riconoscere il figlio e convinta di averlo abortito; la sfida immaginaria di un bambino che gioca a tennis contro il muro di un palazzo e mentre tutto il quartiere lo segue dai balconi sceglie di far vincere l’avversario, il muro, “perché non c’è vittima senza sconfitta” e si allontana con le mani sul viso, forse piangendo davvero. Sono scene che turbano, scene dove amarezza e impotenza si confondono.

La vita assente ─ Nel suo viaggio il professor Adum attraversa una Jugoslavia già ex, un puzzle incompleto di frontiere geopolitiche e religiose, un territorio alla deriva con paesini e città che accendono ricordi da ricomporre nella mente ─ il socialismo di Tito, la frantumazione del dopo-Muro, le guerre etniche, l’intervento americano e quello dell’ONU. La fatica del tragitto lo costringe a misurare la propria goffaggine, l’insignificanza di una vita opaca, la rassegnazione di fronte a episodi spiacevoli (la colonna di blindati americani che sorpassandolo gli distruggere una fiancata della Volvo) e sopratutto sente sulla pelle l’inaccettabile condizione di straniero, straniero nei luoghi che abitano i suoi ricordi. Lungo strade secondarie e in autostrada ─ “quel sentiero lungo e dritto ai margini del quale la vita è assente” ─ Adum incontra personaggi che lo mettono in crisi. Come se le zone minate, le colline spettrali, i cimiteri dimenticati, le “slanciate matite bianche delle moschee” o i cartelli in cirillico non bastassero a stabilire un contatto con la realtà. Ogni sosta si trasforma così in rivelazione, “da se ne zaboravi!”, come recita la t-shirt di una ragazzina che vende CD e DVD in un rappezzato chiosco sul bordo della strada: “perché non sia dimenticato!” Ma cosa non va dimenticato quando nemmeno si riesce a cancellare ciò che si desidererebbe non ricordare?

Umili e ossequiosi erano soltanto coloro che guidavano automobili targate Belgrado e Novi Sad, loro non suonavano e non protestavano, nel tentativo di arrivare, invisibili e il prima possibile, al proprio confine. (pag.50)

Quale Patria, quale Uomo? Le persone che incontra (una cameriera, un tassista, un poliziotto, un albergatore) tentano di inquadrarlo, di riconoscerlo, di collocarlo in questo o quel gruppo etnico, di strappargli una dichiarazione di autenticità culturale partendo dalla targa dell’automobile o dall’accento. Quando un ambulante serbo gli dice: “Ecco, tenga, io le regalo questo disco, glielo regalo di cuore, lo porti con sé a Zagabria e non si vergogni di quello che è. La cosa peggiore è quando un uomo si vergogna di ciò che è”, Adum risponde: “Io non sono quello”. La somma delle numerose negazioni non fa che comprimere la sua identità producendolo in imbarazzi e reazioni scomposte. Il viaggio del professore diventa l’oscillazione di quella che potrebbe essere una Weltanschauung che cerca di sganciarsi da modelli ideologici fino a quando di sé dice di essere, sì, un uomo, anzi, “qualcosa”. Ma non basta. “Ogni uomo è qualcosa. […] A differenza del libro e del computer, l’uomo è più di un qualcosa. Che cosa, allora?”. Cerca una risposta. Dice di non essere croato, ha un accento zagabrese ma è nato nella capitale bosniaca. Insomma, da dove viene davvero? Chi è il professor Adum? Di quale cultura è veicolo? In questa terra imbevuta del sangue del genocidio, della crudeltà dei cecchini, delle fosse comuni, delle violenze dei liberatori, qual è la posizione di Adum? La pistola che porta con sé lo rassicura ─ “la gente è infelice e a causa della propria infelicità è pronta a compiere ogni tipo di male”─ ma servirà a salvarlo, a proteggerlo? Forse lo sottrarrà a una fuga senza fine dall’invisibilità? Il professore di storia Karlo Adum cerca se stesso attraverso una Patria oppure cerca di definire una patria portatile dove responsabilità e appartenenza non siano una sola cosa? L’arrivo a Sarajevo, il chiarimento di quel telegramma, il destino che attende la sua Volvo riveleranno, oltre al significato del titolo del romanzo, il senso di una intera esistenza.

Così come in terra di Bosnia, patria dei cimiteri di automobili, dei gommisti e dei cigni di cemento, in quei Balcani stretti tra le bandiere verdi e l’alfabeto cirillico, esiste un unico e reale valore derivato, fondato sulla rinuncia di sé e della propria patria, allo stesso modo esistono croati fatti così, tristi e filtrati. (pag.115)

Poeta, drammaturgo, linguista ─ Miljenko Jergović (coetaneo per intenderci dei nostri Niccolò Ammaniti e Fabrizio Gatti) è approdato in Italia grazie a Einaudi: una breve comparsa nei Coralli con I Karivan (1997) e poi il salto nel catalogo Scheiwiller (sei titoli dal 2002). Ora Zandonai lo lancia con questo testo uscito all’estero nel 2007. Jergović ha compiuto studi filosofici e sociologici esordendo come poeta a 22 anni. Poi i primi romanzi, le sceneggiature, le collaborazioni con i quotidiani e le opere tradotte in oltre venti lingue. Paolo Rumiz, che dell’area balcanica è un grande esperto, lo giudica come l’erede del premio Nobel della letteratura Ivo Andrić (lo scrittore di Belgrado premiato nel 1961). Curiosamente Jergović pone il luogo di nascita del professor Adum proprio nel paese natale “di quel balbettone di Ivo Andrić”. Originario di Sarajevo, vive oggi a Zagabria. Si considera un apolide ─un freelander appunto─ come il suo protagonista e per questo è criticato dai nazionalisti. A loro risponde inserendo nei romanzi la ricchezza plurale e linguistica del territorio slavo, attraversato nei secoli da popoli altri che hanno seminato vocaboli turchi e germanici. In queste parole mescolate e messe a confronto, smaschera le finte purezze degli uomini e l’origine dei conflitti. Una sfida linguistica che in Freelander viene restituita integralmente e con entusiasmo dalla traduttrice Ljiljana Avirović, docente all’università di Trieste e teorica della traduzione, autrice della bella postfazione che chiude il volume.

Parole come zolle, vera lettaraturaQualificare Freelander come romanzo ‘on the road’ è un poco sbrigativo. Meglio sarebbe definirlo ‘on the reading’ cioè un viaggio sulla lettura, e precisamente sulla lettura storica dell’ex-Jugoslavia che si compie attraverso l’esperienza del protagonista. Una straight story in cui Jergović spacca la terra, va in profondità, a volte con un sorriso, a volte mostrando l’orrore. Lo diceva anche Heinrich Böll: “Qualcosa deve essere spezzato, persino la terra dev’essere spaccata per portare frutti”. In un bel libro di interviste del 1986 (Writers and Politics) ─poco prima che il Muro crollasse e la geografia europea cambiasse volto offrendo alla letteratura una nuova frontiera ─ Susan Sontag, che poi visse per alcuni mesi a Sarajevo durante l’assedio, disse: “Penso che lo scrittore sia uno stregone, e dalla finzione voglio un senso di magia, di meraviglia. Voglio che il mio senso del linguaggio si rafforzi e che la mia sensibilità si modifichi. Voglio che la mia capacità di comprensione venga allargata”. Nella confusa e fragile geografia dei Balcani le parole di Jergović restituiscono un orientamento, una direzione possibile, quasi una nuova cittadinanza. Potere della letteratura, potere di un bravo stregone.

Àlen Loreti per BookAvenue

Appunti / 1: ripescare il legame tra auto e uomo in un lontano racconto di Buzzati, Vecchia auto, nella raccolta Le notti difficili.

Appunti / 2: far seguire alla lettura di Freelander il capolavoro di Emir Kusturica Underground e concentrarsi bene sulle ultime parole del film: “C’era una volta un Paese…”. Suoneranno vicine, vicinissime, allo sforzo narrativo e poetico di Miljenko Jergović.

Freelander• Freelander
• di Miljenko Jergović
• traduzione e postfazione di Ljiljana Avirović
• Zandonai, pp.187, 2010
• 15,00 euro

 

 

 

 

 

 

ndr.

La casa editrice, specializzata in letteratura dell’area Balcanica e mitteleuropea, ha già depositato presso il tribunale la documentazione richiesta per l’istanza prefallimentare. A riportare la notizia è la testata «Trentino» alla quale Emanuela Zandonai, titolare e amministratrice unica della casa editrice, racconta le difficoltà di un piccolo editore di qualità alle prese con la morsa della crisi economica. «Gli ultimi anni sono stati deleteri – si legge nell’intervista -. L’ultimo in particolare, il più sofferto».La casa editrice trentina Zandonai, dopo otto anni di attività, chiuderà infatti i battenti. Dopo la crisi di Carocci e del Mulino a cavallo tra la fine del 2014 e questo inizio di 2015, giunge un’altra notizia negativa per il mondo del libro.

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