Fabrizio Fides è un bravo libraio e intellettuale. Il suo sarcasmo ai commenti sul Nobel al poeta svedese Transtromer nascondevano, non troppo, la sua profonda delusione per il mancato premio a quello che considera il più grande scrittore vivente. Naturalmente condivido la sua delusione anche se da sempre faccio il tifo per Philip Roth, il quale, a questo punto, può presentarsi davanti al suo Creatore senza l’ambito riconoscimento. Chi mi legge lo sa da sempre: è Roth il più grande, Murakami è solo il suo gregario.
L’articolo che segue è, in definitiva, un omaggio al grande “secondo” di Kyoto sperando che un giorno possa andare a prendersi a Oslo la sua pergamena.
Murakami si mise a correre sul serio quando aveva 33 anni, nel 1982. Negli ultimi anni ha ricoperto una media di sei miglia al giorno, sei giorni alla settimana e ha aggredito più di 23 maratone. Nel 1996 ha completato un ultramaratona di 62 chilometri. Ultimamente ha sviluppato una predilezione per il triathlon, e anche se lui sta combattendo una battaglia persa contro il suo precedente “personale” (mi riferisco al tempo di gara), non ha nessuna intenzione di smettere. Per smettere di correre sarebbe come rinunciare a scrivere, che sarebbe come rinunciare a vivere. Quando attraverserà il suo traguardo finale, la sua lapide sarà, lui spera così:
Haruki Murakami 1949 – **** scrittore e maratoneta. Se non altro, fino alla fine non ha camminato.
Il libro è il suo diario di formazione alla corsa e alla scrittura. Come dice nella postfazione, è un libro di memorie ma non può essere catalogato come una biografia a tutti gli effetti. E’ un resoconto di un’aspetto della sua personalità tra cui un ottimo resoconto dell’assalto da solista al percorso della maratona di Atene e della bruciatura conseguente: era piena estate; e altre memorie di parte.
Dice: “Coprire a passo di corsa lunghe distanze è semplicemente consono al mio carattere, mi fa sentire felice“.
L’incentivo narrativo è fornito dalla prospettiva incombente della maratona di New York del 2005. Alcuni dei più bei “tocchi” derivano da cose delle quali si accorge con la coda dell’occhio, per così dire, tipo: “anche i volti degli scoiattoli avevano un aspetto diverso in quanto indaffarati a raccogliere il cibo” è la prospettiva di chi li scorge mentre sta correndo. Oppure, ci sono momenti in cui vede se stesso e i suoi compagni, passatemi il termine, “triatleti”, come:”un branco di delfini pietosi sulla spiaggia, in attesa che la marea li faccia entrare ”
L’ultimo capitolo è una scrittura a viva voce, come in un dialogo, del ritratto di alcuni scrittori fuori dal loro “posto di lavoro” durante il loro tempo libero: Robert Hughes sulla pesca, John Updike sul golf, Joyce Carol Oates sul pugilato. C’è pure la cronaca di una intervista al “trotto” con John Irving. Successe nell’84 a NY; il grande autore non aveva tempo di rilasciare un’intervista al giovane Murakami traduttore del suo “Libertà per gli orsi”. Irving gli confidò che era solito fare jogging a Central Park la mattina presto. E così fù. In ogni caso questi micro racconti-cronache testimoniano quasi sempre delle riflessioni quasi filosofiche sull’esistenza e di riflesso su quelle di ognuno di noi. E la cosa mi piace da morire da sempre: Philip Roth docet.
Torniamo al libro. Murakami esagera quando descrive i suoi pensieri su “la natura fugace della vita”, ma l’idea che dalla corsa egli prenda un esercizio di rigore con il lavoro di scrittura rispetto a qualsiasi altro sport, è una bella testimonianza di rigore intellettuale. A questo proposito, per Murakami, il “lungo raggio” (leggi: lungo percorso) non è solo una metafora della solitudine della lunga distanza del romanziere: è sinonimo dell’equilibrio che la corsa genera su se stesso.
Nello stile di Albert Camus – che ha sostenuto che molto di quello che sapeva sulla moralità e il dovere lo ha imparato dal… calcio -, Murakami ritiene che “la maggior parte di quello che sa dello scrivere, lo ha imparato attraverso l’esercizio della corsa di tutti i giorni. In particolare, ritiene che la scrittura richieda, in ordine di priorità: il talento, la messa a fuoco e la… resistenza, che trova il suo equilibrio con l’abitudine di correre. La scrittura, pensa, è “un tipo malsano di lavoro “perché mette la faccia dell’autore a faccia con la “tossina che si trova in fondo a tutta l’umanità” e la propria, aggiungo, senza il quale “nessuna attività creativa nel vero senso della parola può avere luogo.”
Può essere difficile da digerire come concetto, non fosse altro che non ce lo vedo Umberto Eco a correre per 10 km al giorno per tirare fuori un bel romanzo come “il nome della rosa” e l’immagine del grande scrittore in pantaloncini mi fa proprio ridere; ma credo ci sia un fondo di verità in quello che Murakami scrive nel suo libro. E per farlo usa qualche rafforzativo del tipo: “la corsa è un antidoto utile alla “seduta” (intesa come caduta di qualità) del tuo culo e la tua scrittura” ed è facile da accettare.
La disciplina è necessaria per continuare a correre quando non ne hai voglia, l’istruzione costante al tuo corpo per coprire il numero necessario di miglia, offrono analogie immediate con la fatica di incontrare il vostro obiettivo di molte parole al giorno. Murakami non è dogmatico. Egli sa che per alcuni scrittori, e come lo stesso Tobias Wolff ha ammesso, “non esiste un modello preciso di una vita esemplare “, ma un regime inflessibile di marcia gli ha permesso di tenere il ritmo di sfornare acclamati best seller.
Murakami può essere spinto a correre fino a morirne ma, hey!, sembra molto più sano del bodybuilding di Mishima – non fosse altro per la fine che ha fatto – e nulla del libro suggerisce che sarà lo stesso per Murakami: auto-sbudellarsi e trovare un amico abbastanza coraggioso da tagliargli la testa. Anche se non è proprio così, per fortuna, gli aspetti della sua formazione coinvolgono alcuni estremi di auto-tortura che anche il lettore più tollerante troverà discutibili. A dire la verità trovo abbastanza sgradevole che Murakami ascolti Eric Clapton durante la corsa. Per mettermi in sintonia con l’autore e scrivere questo articolo ho provato a correre un’oretta, i polmoni mi hanno abbandonato quasi subito. Avevo, però, i Pink Floyd nelle orecchie. Sarà stato per questo che ho abbandonato subito o per la mancanza di fiato?
C’è qualche connessione tra la musica che Murakami ascolta e la sua prosa? Nelle gare, è consapevole degli stili di corsa dei suoi avversari allo stesso modo di “due scrittori percepiscono a vicenda dizione e lo stile dell’altro.” Correre al suo fianco sembrerebbe una buona opportunità per controllare il suo stile letterario, almeno per quanto dato a noi in questa traduzione dall’inglese di Antonietta Pastore.
Non so se c’è davvero un fenomeno di causa effetto tra corsa e scrittura: non ho fatto uno studio comparativo, ma ho il sospetto che le due parole più noiose in qualsiasi lingua sono: “piuttosto e abbastanza” ma pure “come ho detto prima”. L’uso o l’abuso di questi vocaboli rendono l’idea di come è andata la marcia del giorno. E per quanto Murakami dimostri la sua padronanza di tutte le varianti dei modi di dire, ci casca alla grande (sarà inciampato un paio di volte durante lo jogging). Si apre a pagina 12 con un bel “come ho detto prima” e il “come ho detto prima” appare cinque pagine dopo. A pagina 25 ci dice che il tipo di jazz club (di cui era proprietario prima di cominciare a scrivere, ndr) era “piuttosto raro” e veniva servito cibo “abbastanza decente” e che lui era un tipo “abbastanza ingenuo”. Procedendo, apprendo che egli fu “abbastanza” sorpreso quando il suo primo romanzo fu accolto “abbastanza” bene, “che la sua casa di Cambridge era “piuttosto” rumorosa, che le sue scarpe nuove calzavano “abbastanza”, che erano molto comode e aveva una sensazione “abbastanza” buona per il ritmo di cui avrebbe avuto bisogno per la maratona di New York.
Nella postfazione Murakami spiega che la ragione della scrittura dell’Arte di correre era per riordinare (inteso come fare tappa sul) il tipo di vita che aveva condotto. A quanto pare, ci sono voluti un bel pò di tempo per “curare, limare e rielaborare” il libro, e lui ha avuto “bisogno di rileggere il manoscritto più volte in un lungo, lungo periodo di tempo.” Mi ha ricordato Thomas Bernhard che usava la ripetizione incessante fino al rischio di avvitare la sua prosa in una “palla” di angoscia straziante!, e, occasionalmente, Murakami c’è andato molto vicino. Le cose erano due: o lanciavo il libro dalla finestra o mi rimettevo a correre, cioè a leggere.
Dice di sé che ha accolto con “sollievo” la fine della scrittura del libro come un fardello che portava addosso da tempo e, pure, che è stato il tentativo di “rendere pubblica la voce delle proprie viscere”
Ora, io non so bene come chiudere questo articolo senza che eserciti su chi mi legga una sorta di maratona alla fine della quale ci si ritrova spompati e stanchi. Il libro di Murakami è curioso, molto diverso dai suoi, e forse meno competitivo.
Non è del tutto male, naturalmente. C’è molta qualità, come quando i muscoli si sentono “duri”, ma la maggior parte del tempo la sua prosa, a differenza di quei muscoli, è talmente rilassata che riesce a stento a stare in piedi.
Ora Fabrizio sarà più… sollevato nel sapere che in fondo non mi dispiacerebbe vedere il nostro podista con il Grande Diploma in mano. .
per BookAvenue, Michele Genchi
Mi consenta di farle i miei sinceri complimenti per l’articolo molto ben scritto ( a parte la “caduta” imperdonabile sulla traduttrice che le varrebbe una bocciatura ad un esame universitario) . Mi ha molto divertito e, a leggere il libro, ha saputo cogliere il senso vero di quello che Murakami aveva da dire. Giampaolo Giannotti
è un refuso e mi scuso. Antonietta Pastore ha studiato pedagogia alla Sorbona con Jean Piaget ed ha vissuto a lungo in Giappone dove è stata professore ad Osaka. Nell’Arcipelago Einaudi ha pubblicato “Leggero il passo sui tatami” (2010).
L’ottima traduzione di Antonietta Pastore non è dall’inglese, ma dall’originale giapponese.
A Fabrì,
m’hai fatto crède che t’eri ammattito, e ‘nvece sei proprio ‘n zunzerellone.
Michele
Sei forte Michè, comunque la mia era ironia, non sarcasmo. Capisci che lo “svedese” lo conoscono solo da quelle parti? Murakami forever.
Roba da pazzi!
Fabrizio
E’ il mio mito. Non ho dubbi!