Si può parlare di biblioteche in occasione del centocinquantesimo compleanno dell’Italia, cercando di tenere insieme una riflessione storica e uno sguardo rivolto al futuro? Difficile farlo senza far riferimento alle condizioni culturali in cui si compì il processo di unificazione nazionale. Nel 1866 Pasquale Villari invitò a prendere atto che c’era «nel seno della Nazione un nemico più potente dell’Austria, la nostra colossale ignoranza». Tre italiani su quattro erano analfabeti e bisognerà aspettare il nuovo secolo per avere un’esigua maggioranza di cittadini capaci di leggere e scrivere: solo nel 1901 la percentuale degli analfabeti scese al 48,5%.
Storia della lettura e storia della «pubblica lettura», cioè dell’organizzazione bibliotecaria nazionale, sono profondamente connesse ed è evidente che in quel contesto le biblioteche erano destinate a un ruolo marginale. Sulla realtà italiana, specie a confronto dell’Europa centro-settentrionale, incidono anche altri fattori di ordine storico-culturale di più lontana origine, come la consuetudine con la lettura della Bibbia tra i protestanti (i paesi scandinavi, la Germania, l’Inghilterra hanno sconfitto prestissimo l’analfabetismo). Non è questa la sede per ricordare quanto Riforma e Controriforma abbiano inciso sui destini della cultura europea, ma dobbiamo dire che in Italia non si è fatto molto per modificare lo stato delle cose. Alle debolezze e alle difficoltà di partenza si sono aggiunti nel tempo il disinteresse e l’insipienza dei decisori politici, incapaci di realizzare una rete di infrastrutture culturali che potesse far crescere unitariamente e armonicamente l’Italia e gli italiani.
L’eredità pre-unitaria era formata, prima della breccia di Porta Pia, da 210 biblioteche, di cui 164 aperte al pubblico, distribuite in 45 città (senza considerare Roma). Da lì prese le mosse l’edificazione del sistema bibliotecario del nuovo Regno. E fu in quegli anni che si consumò un grossolano equivoco: le biblioteche civiche territoriali, solitamente destinate all’intera comunità locale, in molti casi nacquero proprio allora per effetto della confisca dei beni ecclesiastici. La decisione di affidare questi “beni nazionali” ai Comuni servì più a garantirne la custodia che a realizzare un tessuto di servizi pubblici per i cittadini. Si trattava infatti di collezioni librarie nate per altri scopi e rivolte ad altri destinatari, per cui la loro utilizzabilità in funzione dell’alfabetizzazione e della promozione della lettura fu pressoché nulla. Si definì in quegli anni l’identità delle biblioteche italiane, fortemente orientate alla conservazione. Totalmente diversa l’origine della public library anglosassone, fondata sul sistema del self-government britannico e concepita per il proletariato urbano nato dalla rivoluzione industriale. Questi istituti, fortemente impegnati nel campo dell’educazione permanente, mettevano al primo posto non la tutela del patrimonio ma la capacità di erogare servizi. A questo obiettivo puntarono le biblioteche popolari, che cominciarono a diffondersi in Italia nella seconda metà dell’Ottocento per iniziativa di organizzazioni filantropiche di ispirazione religiosa o politico-sindacale, non raggiungendo mai però un forte radicamento nella collettività.
Senza proseguire oltre in questa analisi storica, possiamo prendere atto dell’assoluta marginalità delle biblioteche, di tutte le tipologie di biblioteche, che oggi ammontano sulla carta a oltre 16.000 (di cui 46 appartenenti al ministero dei Beni Culturali, 6700 agli enti locali, 2500 universitarie), frequentate secondo i dati Istat solo dall’11% degli italiani. Permangono fortissimi squilibri territoriali: il 40% delle librerie e il 50% delle biblioteche operano nelle regioni settentrionali e meno del 30% al Sud e nelle isole.
Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: l’Italia della lettura è attraversata da profonde disuguaglianze territoriali, per genere, età, condizione socio-economica.
Nel 2010 circa venti punti percentuali distanziano il Sud (35% di lettori sulla popolazione) dal Nord (54%) e viene quasi da pensare che non si stia parlando della stessa nazione: il dato delle regioni settentrionali è simile a quello di Germania, Regno Unito o Francia, mentre la percentuale del Sud è grosso modo la stessa di Portogallo, Malta e Bulgaria. Anche le caratteristiche e le dimensioni del luogo di residenza incidono molto: chi vive nelle grandi aree urbane legge di più. Questo dato non deve sorprendere, perché sono tantissimi i comuni, anche di media grandezza, privi di librerie e di biblioteche, in cui un cittadino non ha l’opportunità di incontrare un libro sul proprio cammino.
Sensibile anche la differenza tra i due sessi. Il dato medio del 46,8% di italiani che lo scorso anno ha letto almeno un libro nasce da una percentuale del 40 tra i maschi e del 53 tra le femmine. Fino al 1973 gli uomini leggevano più delle donne, ma da quel momento in poi, per effetto della maggiore scolarizzazione, la lettura è diventata un’attività prevalentemente femminile, e ora in tutte le fasce d’età le donne leggono più degli uomini. La situazione andrebbe fronteggiata con un potenziamento della rete dei servizi. E invece tutte le biblioteche italiane sono in una crisi profonda, acuita negli ultimi anni da drastici tagli ai bilanci. Quelle messe peggio di tutte sono le biblioteche statali. Si pensi che la Nazionale di Roma ha un budget di 1,5 milioni e quella di Firenze, il maggiore istituto bibliotecario del Paese, dispone solo di 2 milioni annui, mentre quella di Parigi ha un bilancio di 254 milioni, Londra di 160 milioni, Madrid di 52 milioni. E per il 2011 il ministero dei Beni Culturali annuncia tagli del 50%. Di questo passo si va dritti dritti verso la chiusura.
Per guardare con fiducia al futuro occorrerebbe finalmente una politica bibliotecaria nazionale, nella consapevolezza che non si sta parlando solo di biblioteche, di libri e di lettori, ma di una funzione formativa essenziale nella società contemporanea, con ricadute importanti sulle potenzialità di crescita economica e sulla vita sociale della comunità nazionale. A causa di una scarsa consuetudine con la parola scritta, il 70% degli italiani non sa comprendere un semplice testo, compilare un modulo, seguire le istruzioni per l’uso di un elettrodomestico. All’arretratezza che caratterizza il nostro Paese sul terreno della lettura si aggiunge ora quella relativa alla diffusione della rete a banda larga e alla presenza di Internet nelle case, col rischio di ritrovarci con una palla al piede simile a quella che centocinquanta anni fa era rappresentata dall’analfabetismo. Da tempo il tema della information literacy si è imposto all’attenzione degli educatori e dei bibliotecari di tutto il mondo, che stanno reinterpretando in questo modo la funzione di promozione culturale esercitata dalle biblioteche, volta alla crescita individuale e collettiva delle persone, garantendone i diritti di cittadinanza in una società realmente inclusiva.
In questa nuova frontiera dell’alfabetizzazione possiamo individuare forse il principale compito delle biblioteche italiane nella società dell’informazione.
(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 26 febbraio)