Livio Romano ha scritto qualche tempo fa ( non ricordo più dove lo abbia scritto, figurarsi) che fare letteratura è come mettere un paio di occhiali. Conta la montatura attraverso cui guardare la realtà. I miopi, soprattutto, ma forse anche gli astigmatici, potranno capire meglio. Sta tutto lì.
Così ne ha inforcato un paio nuovo di zecca, oggi, per raccontare un trentacinquenne, tal Gregorio Parigino, alle prese con un’esistenza frenetica fatta di lavoro, parenti, donne, ricordi e medicine (tranne le ultime, ma solo da poco tempo, sembra il ritratto di un direttore di libreria che conosco). Un uomo che impara gradualmente a guardare la sua vita da lontano e a ritrovarne il senso concreto, tangibile, terreno proprio in quel bailamme, che, girandogli vorticosamente intorno e ancorandolo al suolo, gli impedisce di perdersi e gli consente di conservare la misura esatta del suo tempo.
Quella che si può leggere come una trilogia, conclusasi ora con Niente da ridere, dopo Mistandivò e Porto di mare, è quindi una montatura forte, una sagoma imperativa, categorica, ben distinguibile tra le altre, pronta a reggere lenti limpide, pungenti, ironiche e necessarie. La montatura dei tre romanzi di Romano cambia, pur restando puntata sulla stessa materia umana: un uomo del sud (proprio come il nostro direttore) che si trasforma e lo fa passando attraverso filtri sociali, psichici, letterari, musicali. Chimici. Sì, in Niente da ridere, una delle rivelazioni fondamentali è offerta proprio dal potere positivista della chimica. La pillola di Alzaprolam l’ansiolitico, una volta scoperta, infatti, diventa filo rosso, compagna immancabile del protagonista della storia, codice di comprensione e superamento della realtà. Una divinità minore, ma bonaria. E’ un fatto: la chimica riguarda i nostri giorni, è tra i nostri strumenti. Ciascuno a suo modo. (Il nostro direttore prendeva il Minias invece, ma con lo stesso stupore).
In qualche maniera, questo tipo di analisi sembra richiamare l’idea di viaggio, di percorso, di trip appunto, anche grazie alla grandissima dinamicità dello stile di Romano, alla sua velocità sfrenata, al guizzo quasi psichedelico, evocativo di certa letteratura anglosassone, classica e contemporanea, seppur ancor più rapido e immaginativo della stessa. Il sud c’è anche in questo libro come negli altri, è vero, ma non è il sud cui siamo avvezzi. Questo sud sembra esplodere perché troppo grasso, carnevalesco, colmo d’umanità, di cibo, di varietà d’intenti, di malcostume, di troppo ieri e troppo desiderare nell’oggi, troppo sesso, troppo digiuno, troppo circo e troppe aspettative. Troppi bisogni. Troppo colore. Come la festa di San Nicola a Bari in un maggio che sembra perenne.
La letteratura che parla di questo sud nuovo e con questo ritmo, diventa universale. Sono lenti, quelle di Romano, che consentono di guardare lontano, volendo rimanere nella metafora. Lenti potenti.
Il romanzo è attraversato infatti da questo sguardo distratto che mira più in là, oltre la siepe, rivolto a nord mentre il sud che resta, un sud fatto di uomini con famiglie numerose, lavoro fisso, con faticosi extra free lance, case in campagna perse tra tratturi e cave di pietra, tra poeti e filosofi, vergini dalle gambe lunghe, paturnie e seccature di tutti i tipi, è una terra che desidererebbe essere diversa, che ha acquisito modelli nuovi, ma che non sa rinunciare ai vecchi.
Dicevo: un libro sul cambiamento. Senza meno! (traduzione dal barese: accidenti, accipicchia, ndr). Ma il cambiamento non può prescindere dallo scandaglio della radice. E’ per questa ragione che il racconto, pur procedendo spedito in avanti, frizzante e inarrestabile, si avvolge intorno da una serie di riflessioni relative al passato del protagonista, flashback, delle vere e proprie invocazioni rivolte ai fantasmi che ciascuno si porta dietro.
Tutto questo lavoro, di grande impegno contenutistico e stilistico, miracolosamente diventa verità. Ché non si può negare che l’impressione principe che ricava il lettore, con questo nuovo romanzo di Livio Romano tra le mani, sia proprio quella di una grande naturalezza letteraria. Come certi ballerini russi sul ghiaccio, Romano regala illusioni di leggerezza, eroismo e sincerità. Ma chi pensa ad un libro autobiografico non tiene conto della montatura. Non tiene conto dell’artificio. Dell’orpello che regge la lente, della sua materia artificiale per quanto tecnicamente perfetta. Tra lo scrittore ed il suo personaggio c’è sempre una buona montatura. L’assenza di immediato biografismo, comunque non vuol dire menzogna.
Ma allora, se la meta è chiara, seppur non certa, né prevedibile, resta da chiedersi da dove nasca il bisogno di questo viaggio. Dal punto di vista strettamente umano, credo che tale necessità sia connessa all’età ( invecchiamo, sì, invecchiamo anche noi nati nel 1959!) e alla conseguente urgenza di saldo e pareggiamento dei conti in un contesto più strettamente letterario, immagino invece che il bisogno sia quello di arrivare ad una rappresentazione veritiera della generazione più bistrattata dalla storia: quella degli oscuri e plastificati anni 80, quelle delle mezzeseghe che avevano solo un vago ricordo dei Beatles. Vuoi mettere il gibbilleo ( da giubileo tr. dal barese: casino, confusione, folla ndr) di una manifestazione con le bandiere rosse nel 77, e poi tutti a far l’amore?
Perché poi quel trip si trasformi infine in una specie di ritorno, lo si comprende solo con qualche sforzo di tipo psichiatrico, di fronte al quale Romano non si tira indietro. Anzi. Lui si aggira tra le pareti morbide e bianche di questa materia con grande maestria. Con assoluto rispetto, pur restando sempre lieve e divertentissimo. La meta, che si vada o si ritorni, resta comunque il Senso. Il Sentirsi. Il Percepirsi. Lotta contro il vuoto, contro l’insensatezza, almeno quanto un astronauta contro il mal di mare, lui che, rimbalzante nella sua tuta di titanio senza forma, brama di ritornare sulla terra. Gli arti che gli si frangono di continuo, ora è una gamba ora è un gomito, per tutta la durata del romanzo, forse sono proprio il traslato di un graduale riappropriarsi del proprio corpo e dei cinque sensi, compreso quello salutare del dolore.
Gregorio cerca la percezione di un’emozione concreta, quale può essere la tristezza, la nostalgia, il ridicolo. Viaggia, si muove, cambia casa e racconta, al solo scopo di sentirsi. Recupera il suo passato per il bisogno di sentirsi incazzato. Veramente incazzato. La sua meta è la riconquista della propria pancia. Una piccola pancia, con piccole pillole blu a riempirla di senso chimico, un aggregato di pelle, muscoli, grasso e benzodiazepine, che allontani l‘idea insostenibile e aliena dell’Infinito. Oppure una bella donna che vende torroni in provincia e che, con i suoi sms infuocati e segreti sia capace di mandare alle stelle l’autostima di chiunque. O anche un paio di piatti di spaghetti pomodoro e basilico, le melanzane sott’olio, (anche i polipi crudi del direttore) e le altre prelibatezze, intesi come la breve tregua che riempie il vuoto. Chimica, testosterone e carboidrati per lasciare che sia in questo mare d’impicci, divenuti finalmente concreti. La pancia, del resto, è il luogo in cui ha sede la vita, la spiegazione di quello che è stato, la piena accettazione materiale di quello che è, l’idea interna di sé, la percezione del corpo e della sua umana verità. La sede di ogni voglia. La sede del sesso. La sede dell’amore. La sede della fame.
La sede forse pure della letteratura vera, tra frattaglie e altre risate perplesse.
Livio Romano, Niente da perdere, Marsilio.