Tutti i colori del mondo.

   Tempo di lettura: 7 minuti

copertina

Massimiliano Naglia è l’autore di “Gli occhi della solitudine”: il suo bellissimo libro di esordio, molto amato da noi  e dagli amici del nostro sito. Lo abbiamo sollecitato a raccontarci il “suo” libro amato del momento.

Due avvertenze per chi decidesse di leggere queste righe. La prima è che non ho mai fatto una recensione e, probabilmente, non ne sono capace. La seconda è che, quando ascolto una musica, osservo uno spettacolo della natura, guardo un’opera d’arte o leggo un libro, penso: “mi piace moltissimo, molto, poco, per nulla”, ma non mi chiedo il perché. Quello che conta è l’emozione, l’effetto, ciò che resta. Se una cosa mi fa sentire bene, riempie il tempo piacevolmente, accarezza il cuore, non è così importante trovarne per forza la ragione o magari, sì, la ragione la intuisco, ma lascio che non prenda il sopravvento. Un cielo stellato può togliere il respiro. Conoscere le vie degli astri non lo rende più bello, solo un po’ meno misterioso. Questo è lo spirito con cui accenno a “Tutti i colori del mondo”, scritto da Giovanni Montanaro per i tipi di Feltrinelli.

 

 

Dunque, si tratta di una lunga lettera che Teresa Senzasogni indirizza a Vincent Van Gogh. Ai tempi del loro primo incontro, Teresa Senzasogni era una ragazza molto giovane residente a Gheel, cittadina belga in cui, da sempre, i “matti” convivono liberamente e pacificamente con gli “altri”. Teresa forse è matta e forse no, forse non lo era e poi lo diventa, difficile dirlo, i confini sono quasi sempre labili. Comunque, orfana, capace di prevedere il futuro, tranne il suo, era stata dichiarata matta, lei consenziente, e per questo, come usava, accolta da una famiglia che le avrebbe garantito una dote, per potersi sposare. Teresa aveva un passato breve e strano su cui crescere e un solco già tracciato dentro cui camminare. Aveva sogni, a dispetto del suo “cognome”, e figli da cullare, solo nel suo cuore, come succede a tutti, prima che i sogni e i figli diventino realtà, se mai lo diventano. Ma, proprio la sera in cui la “sua” famiglia”, i Vanheim, dava una festa per celebrare l’arrivo del “vero matto”, essendo morto il precedente, era apparso lui. Con i suoi capelli rossi, la faccia schiacciata contro il vetro della finestra a sbirciare la gente, ad annusare l’odore, il calore di quella casa, cauto e selvatico come un animale dei boschi. Era apparso. Cambiando per sempre la vita di Teresa, la sua percezione della vita, cancellando d’un colpo, con la forza della terra sulla terra, quel solco già tracciato. Vincent, bisognoso di riposo, di cibo, forse di spezzare, per un attimo, la solitudine, era stato accolto dai Vanheim perché il “vero matto”, per un contrattempo, non era arrivato la sera della festa, rivelandosi brusco, silenzioso, diverso da come Teresa lo aveva immaginato. Ma scriveva lettere senza spedirle e abbozzava paesaggi e figure sui fogli, con un segno strano e un po’ brutto. Lei aveva fatto presto a capire, a indovinarne i destini, quello di pittore e quello di matto che, forse, erano un destino solo, il destino di Vincent Van Gogh. Gli aveva procurato i colori, la tavolozza, i pennelli e, per la prima volta, lui aveva dipinto. E accusato un attacco epilettico. Poi, così come era venuto, se ne era andato, e Teresa era rimasta a cullare sogni nuovi, fino a quando ne aveva avuta la possibilità, fino a quando un muro non le aveva tolto lo sguardo, brutale e doloroso come tutti i muri che separano, che escludono, eretto fra noi e le nostre speranze.

 

A distanza di dieci anni Teresa e Vincent si rivedono, la “senza sogni” e il pittore, o meglio, lei lo rivede. Ne aveva intuito la presenza girando alcune tele appoggiate al muro della lavanderia, in quel luogo che l’avrebbe ospitata per sempre. Teresa è cambiata, Vincent è cambiato. Ma Teresa non si rivela, non gli parla; una donna, in fondo, desidera essere riconosciuta, anche sotto il peso degli anni e del dolore. Lui passa, forse guarda ma non vede, forse non guarda, passa soltanto, come l’ultima speranza. Poi se ne va, di nuovo, va via fisicamente, la abbandona, si perde. Il destino di Vincent. Il destino di Teresa. Che comincia a scrivere. Una lunga lettera, che mai gli spedirà, che rivolge, forse inconsciamente, a se stessa, per sentirsi viva, per tornare, con le parole, quella che era. Un linguaggio asciutto, essenziale, semplice. Frasi quasi sempre brevi, a volte tronche, come capita quando si pensa. Senza inutili abbellimenti (c’è qualcosa da “abbellire”?), anche quando emergono lo stupore blu per una notte stellata e l’amore verde e giallo per le distese della Campine. La voce suona amara, disperata e pure composta, la rassegnazione trasmette, in ogni istante, un senso di dignità che eleva l’essere umano. È il riflesso di una vita, della vita di Teresa. E, nonostante tutto, la poesia affiora, perché c’è poesia anche nel dolore. Perché, anche nella follia, se mai si può parlare di follia – i confini sono quasi sempre labili – si aprono i fiori, si distendono le strade e, infine, hanno un’anima tutti i colori del mondo.

Ecco: siccome non recensisco libri, e probabilmente non ne sarei capace, prendete queste righe per quello che sono, qualche pensiero in libertà, insomma, ciò che mi è venuto in mente dopo avere letto il romanzo di Giovanni Montanaro, e considerate che, se ne ho scritto, è soltanto perché mi è piaciuto.

per BookAvenue, Massimiliano Naglia,

 

Giovanni Montanaro, Tutti i colori del mondo, Feltrinelli editore.


 

 

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4 commenti

  1. Massimiliano Naglia

    Grazie anche a te, Lory. A me piacciono molto i matti per i libri, magari ce ne fossero di più!
    Ciao
    Max

  2. Bravo Fabrizio!
    Convinci il capo ad arruolare questa bella penna!
    Massimiliano benvenuto in questa comunità di matti ben fronti di penne.
    Lory

  3. Massimiliano Naglia

    Beh, grazie, Fabrizio, sei gentile. Spero di essere benvenuto, non solo di passaggio. Magari, se Bookavenue mi ospita, qualche altro pezzo lo scrivo…
    Ciao
    Max

  4. Beh. Se sei esordiente anche in questo campo, direi che hai una dote particolare.
    Bello il tuo pezzo, che fa venir voglia di leggere il libro. In fondo è questo quello che conta.

    Benvenuto! (o sei solo di passaggio?)
    F.

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