Quando ho visitato la mostra di Padova sulla collezione Gelman (in cui sono raccolti grandi artisti e fotografi messicani tra cui spiccano Frida Kahlo e Diego Rivera), mi è giunto all’orecchio il commento di un esperto di storia dell’arte presente in sala: “Frida Kahlo non sapeva amare”. Non era la prima volta che sentivo un intellettuale esprimersi sull’amore degli altri con una definizione così assurda e netta, e mi sono ricordata di un libro nella mia lista dei desideri. L’ho ordinato.
“Psicanalisi immaginaria di Frida Kahlo” è brevissimo e poco conosciuto. Mi ha incantato la raffinatezza di sguardi su un’artista e un’epoca che forse sono dati un po’ per scontati. Mi ha comunicato dinamismo del pensiero e una complessità che affondano nella psicologia e nelle neuroscienze recenti.
Ho la sensazione che unire la critica alla psicanalisi sia un’operazione impervia e tabù, come se arte e psicologia dovessero rigettarsi vicendevolmente (con l’eccezione di Jung che, per qualche ragione, va sempre bene). A me, però, questa tensione affascina, come pura domanda e ricerca sull’umanità, sin dai tempi della tesi di laurea.
Il libro spazia tra letteratura, cinema, storia e psicologia. Lo sguardo è umano e compassionevole, mai giudicante e mai definitivo. Uno psichiatra e una filosofa intrecciano arti, paradigmi, strade e visioni intorno a un nucleo narrativo: il disturbo post-traumatico da stress e l’unificazione del “sé” attraverso il mezzo artistico. Nel testo ci sono molte riproduzioni di opere e poi alcuni spezzoni di diari e soprattutto parallelismi con capolavori del cinema.
L’arte ne esce come terreno di possibile lavoro sull’unificazione del sé, ma anche come possibile distacco dal sé. Mi hanno affascinato la capacità introspettiva e la consapevolezza neurologica dell’essere umano artista che agisce sulla dissociazione post-traumatica direttamente: sul corpo disgregato nello spazio e nel tempo e sulla mente-pilota, che opera su di sé, ma dall’orlo della dissoluzione di sé.
Mi ha meravigliato il “movimento” dentro e fuori del corpo, che cerca una riunificazione necessaria alla vita – operazione diversa dal proiettare un’immagine di sé – e arriva a un terreno che estende e trascende il corpo. Ci sono molti riferimenti, nel testo, al mito. Leggendo, io ho invece pensato in termini biologici: che la “tela” d’artista diventasse proprio “tela del ragno”, ovvero estensione e riparazione concreta del sistema nervoso centrale.
Nei diari, questa lucidità di costruzione del sistema nervoso mi è apparsa evidentissima e commovente. Sul finale della vita, poi, il piano dell’identità si sposta addirittura – distrutto il corpo e tutte le sue tele – sul mondo, diventando simile alla pura coscienza della matrice, in quel “nirvana al contrario” che è l’esperienza del dolore della carne fatto pensiero.
Per chi è appassionato d’arte e psicologia, è molto affascinante.
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Silvia Belcastro
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Il libro:
Riccardo Dalle Luche, Angela Palermo,
Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo,
Mimesis edizioni, 2016
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