Il successo del Salone del libro è dei lettori

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Grazie Milano. Se il Salone del Libro di Torino si avvia a chiudere un’edizione trionfale, euforica, entusiastica come neppure il più ottimista avrebbe potuto prevedere alla vigilia, una grande parte del merito va alla scelta dei grandi gruppi editoriali di organizzarsi una propria fiera a Rho, nella convinzione di sbaragliare facilmente il campo avverso. Una conferma che la concorrenza fa bene (non a entrambi i concorrenti, però), costringendo a ripensarsi, a innovare, a dare fondo all’inventiva. Dentro e fuori del Lingotto, con gli scissionisti non c’è stata partita. Per vendite e partecipazione del pubblico.

 

 

I motivi sono molti. Nel Paese dei Saloni che si biforcano, la lacerante contesa iniziata l’estate scorsa ha concentrato sui due eventi un’attenzione mediatica che nell’opinione comune, al di là anche della realtà, ha finito con l’essere avvertita come la resistenza dei «buoni» contro i «cattivi». E ha convogliato sul sentiero che portava verso i buoni una folla che soltanto domani potrà essere contabilizzata, ma che sicuramente supererà, e probabilmente non di poco, i 126 mila visitatori dell’anno scorso.

Se si vuole cercare una ragione più profonda di questo successo, bisogna però guardare oltre i numeri. Quel che è risultato vincente, alla fine, è il senso di comunità. La comunità torinese, prima di tutto, quella politica che ha saputo superare le contrapposizioni di partito e far fronte comune con un gioco di squadra applicabile anche in altre situazioni, e quella degli intellettuali e dei semplici cittadini che si sono stretti intorno al «loro» Salone e magari proprio quest’anno l’hanno visitato per la prima volta. Aveva ragione Hölderlin: dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva.

E poi c’è la comunità più vasta, che travalica i confini della città (perché molti venivano da fuori): è la «comunità dei lettori» che si è formata nel tempo, che ogni anno si accresce di nuovi adepti, e che è qualche cosa di più della pura somma dei singoli visitatori. «Quelli che il Salone». Che si ritrovano ogni anno, che si riconoscono anche se non si sono mai visti, che amano i loro riti, le code interminabili davanti agli ingressi e alle sale dei convegni, le torme di bambini in cui si rischia continuamente di inciampare, la pizza consumata nei corridoi, seduti per terra, il caldo, la ressa, il frastuono, gli andirivieni estenuanti, tutto ciò che rimarrà scolpito nel ricordo come un’impresa, una conquista che all’aspetto culturale aggiunge l’ineffabile piacere della prova eroica di resistenza a cui sottomettersi una volta l’anno. Il Salone di Torino è caotico, scomodo, imperfetto, vitale. Anche per questo piace.

Ma una comunità di lettori non si improvvisa di punto in bianco. Ed è questo che i Grandi scissionisti non hanno capito, o hanno capito troppo tardi, finendo con l’andare a a sbattere contro la sperimentata e (da quest’anno) «lagioiosa» macchina da guerra del Salone. Il dio acceca chi vuole perdere, dicevano gli antichi. Perché poi abbia sentito il bisogno di perderli, è una domanda che gli interessati dovrebbero porre a se stessi.

 

Maurizio Assalto per La Stampa

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