di Carlo Gambescia
Che rapporto abbiamo con i libri? E soprattutto che tipi di libri oggi vanno per la maggiore? I due quesiti meritano una risposta.
Anche a costo di apparire didascalici dobbiamo subito sottolineare un fatto. Ci sono due modi di porsi dinanzi al libro. Il primo è di considerarlo un fine, il secondo un mezzo. Se il libro è visto come un fine, qualcosa che ha valore in sé, il libro verrà considerato un bene culturale e persino sacro. Non per niente, si è parlato di cristianesimo, giudaismo e islam, come di “religioni del Libro”, con chiaro riferimento alla Bibbia, quale sacra espressione della parola di Dio.
Del resto lo stesso cristianesimo si sviluppò, in un mondo pagano” in cui però il “libro” era giudicato come l’espressione culturale più alta di un’intera civiltà, quella greco-romana.
Se il libro invece è considerato un mezzo, qualcosa che serve a perseguire scopi estranei al suo valore culturale, come ricchezza e profitto, il libro scadrà nel giudizio delle gente, e verrà considerato come qualsiasi altra merce. L’editoria contemporanea è probabilmente il più chiaro esempio storico di mercificazione del libro: un bene come tanti altri che deve ubbidire alle leggi della giungla capitalistica, fondate sugli alti profitti e la produzione di massa della merce-libro.
Con questo non si vuole sostenere che il mondo premoderno non abbia conosciuto gli egoismi di mercato, né che tuttora manchino difensori del libro come valore in sé. Il punto da precisare è un altro: appena un testo finisce nei rotismi della macchina produttiva capitalistica, da bene culturale si trasforma in bene economico. Scompare quel ruolo di trasmissione della tradizione “incorporata” nel libro, spesso così profonda da essere rivissuta da ogni generazione, come è accaduto ai capolavori omerici (ecco quel che significa “vita propria” del libro).
L’osservazione può sembrare banale, ma ciò che il libro ha guadagnato in termini di quantità (diffusione) lo ha perduto in qualità (profondità e “durata”). Se si produce per consumare, e si consuma per produrre, i produttori e i consumatori di libri come di automobili, non possono limitarsi a un solo “modello”. Anche perché un libro o un automobile che “durasse” più dei precedenti, rischierebbe di intralciare la produzione e il consumo di nuovi “modelli” librari e automobilistici, danneggiando così un sistema economico basato sulla crescita esponenziale. E’ perciò impossibile – e non è una battuta – che oggi le automobili e i libri dei padri possano essere trasmessi ai figli, e così acquisire vita propria: quel valore in sé cui si è già accennato.
E non c’è da stupirsi: dal momento che se si accetta di ridurre il libro a merce, non si può poi rifiutare, visto che il mercato del libro è un prolungamento del mercato capitalistico, di subirne gli “inconvenienti”: concentrazioni, prezzi elevati, dozzinalità e strapotere dell’economia capitalistica-guida, quella americana. Tutti problemi irrisolvibili, almeno all’interno di un’economia che si finge di mercato.
Partecipare oggi a una riunione editoriale significa soprattutto parlare di tre cose: di quel che accade sul mercato editoriale americano, di vendite trimestrali, promozioni, sconti, e soprattutto della possibilità, spesso mitizzata, di pubblicare un best seller.
Alfredo Salsano, già direttore editoriale della Bollati Boringhieri, lanciò qualche anno fa in controtendenza l’idea del libro lento, lo slow book, da valorizzare nell’ambito saggistico e della piccola editoria. Un libro-fine e non mezzo che dovrebbe restare in libreria più a lungo, e non sparire, come oggi capita, dopo tre mesi.
Una buona idea che stenta tuttora a decollare. Perché? In Italia, i grandi editori, Feltrinelli e Mondadori ad esempio, controllano pure intere catene di mega-librerie, e vedono crescere i profitti in funzione di una rotazione sempre più veloce del solito libro imposto ai lettori, in genere il best seller del momento. E’ perciò improbabile che accettino di tenere negli scaffali libri di qualità che però non si vendono subito: libri “improduttivi”. Basta visitare periodicamente le loro librerie , per scoprire l’assenza dello slow book e del piccolo editore, soprattutto se non allineato.
Del resto, ogni cultura è libera di fare le sue scelte, salvo poi pagarne le conseguenze. Perciò la poesia di Omero sta al libro-fine come i gialli pseudoamericani di Faletti stanno al libro-mezzo…