Forse stiamo scrivendo accertate banalità. Ma per capire un libro (il ‘senso’, a scuola ci avrebbero fatto scrivere: il ‘messaggio’) spesso bastano pochissime righe. Dunque, prima di entrare in tema, leggete attentamente questa citazione: «Vorrei avere nella mia casa una donna ragionevole, un gatto che passa tra i libri, degli amici in ogni stagione senza i quali non posso vivere». Parole di un poeta francese riportate pari pari a pagina 190 del romanzo d’esordio di Giuseppe Di Piazza: «i quattro canti di Palermo», edito da Bompiani. Siccome Di Piazza è un noto giornalista cercheremo di non esagerare con le lodi.
Sarebbe, infatti, oltremodo sospetto e il recensore riscuoterebbe scarsa credibilità. Però, è impossibile non essere felici di aver letto queste pagine. Perché sono dense, si capiscono (evento, tutto sommato, non scontato nella letteratura contemporanea), fanno bruciare lo stomaco, riportano ad anni decisivi della nostra storia. Di Piazza narra le vicende di un giovane cronista nella Palermo degli anni Ottanta. La Palermo della guerra di mafia, la Palermo che anticipò – come sempre – ciò che poi sarebbe successo nel resto del nostro Paese e cioè la fine di un equilibrio durato quasi mezzo secolo. E lo fa con un registro stilistico ineccepibile, con una scrittura degna di un Codice civile: drammaticamente scarna. Attenzione, però (e ricordatevi sempre della citazione iniziale): in queste pagine non si capisce solo la fatica di vivere di un giovane che, tra pubblico e privato, costruisce la sua educazione sentimentale, ma anche un ‘contesto’ fatto di paure e speranze, miserie e nobiltà in una società in perenne conflitto eppure disperatamente alla ricerca di una ‘vita normale’. Il volume si compone di quattro episodi. Roba forte, sia chiaro. Dalla modella Sophie («Lo so, quella ragazza ha gli interni neri»), a una figlia che rivendica il proprio onore, ai bambini scomparsi, a un uomo che fa parte di una famiglia mafiosa, ma che tale non vuole diventare e che – svelarvi il finale sarebbe pura crudeltà – forse trova, a modo suo, un qualcosa che assomiglia a un riscatto. La sequenza dei quattro episodi non è quella seguita da Di Piazza, è nostra e rappresenta una personalissima classifica di gradimento.
Ma la vera forza del libro sta nella caratterizzazione dei personaggi.Lui, il cronista di nera de «L’Ora», quel formidabile giornale fatto morire malamente (e ancor’oggi ci chiediamo perché). Loro, le ragazze che si alternano, tra gustose ricette, tanta sensualità e infinita dolcezza: dalla tragica Sophie alla comica Serena alla rassicurante Lilli solo per citarne alcune. E poi quel ‘materiale umano’ fatto di boss duri e spietati, di criminali da quattro soldi eppure decisivi per le vite altrui, di eroi del nostro tempo che tentarono di dare speranza, di donne di Cosa Nostra. Resta inteso che la vera protagonista è Palermo: colori e odori come al solito abbaglianti e forti (anche troppo) e il protagonista che pennella un quadro siffatto: «Maneggiai emozioni di poliziotti con occhi da cocaina, vidi la voglia di vendetta nello sguardo dei loro capi, tenni in mano una mitraglietta Uzi, compresi la differenza tra un mitra Thompson a canna regolare e un sovrapposto a canna tagliata. In realtà non capii nulla di serio, mi limitai a redigere il verbale giornalistico di un ritrovamento. Erano anni così: si teneva contabilità di morte, di armi, a nessuno di noi era richiesto di scoprire davvero qualcosa. I
l giornalismo investigativo era un modo di dire nella Sicilia dei primi anni Ottanta, dove il raccolto rosso di Hammett era davvero raccolto di sangue». Ciò spiega, ci pare, perché troviamo quest’ossessiva (e più che giustificata) ricerca di una ‘vita tranquilla’. Altro esempio: «Avevamo passato i vent’anni da poco: un gelato con i propri amici, con i propri amori, nel proprio bar preferito, era pur sempre il miglior premio. E lo spongato in coppa di metallo di Villa Sperlinga era il migliore dei gelati possibili». Sarà bene tenere a mente l’ultimissima frase, solo in apparenza contraddittoria: «E ringrazio di essere nato a Palermo». Come a dire che quegli anni hanno dato, nella loro immensa crudezza, significativi risultati. Da non perdere (anche in questo caso non vi riveliamo il perché e vi rimandiamo a pagina 213) la ‘Toponomastica’. C’è sempre quel numero, il quattro. Che spiega tutto. PS Però un difetto il romanzo ce l’ha. Nelle scelte musicali. Mattoni puri. Ci permettiamo sommessamente di consigliare all’autore alcuni titoli. Anzi: «quattro» titoli. 1. «Message in a Bottle» (The Police) 2. «Beat Boys in the Jet Age» (The Lambrettas) 3. «Red Red Wine» (UB 40) 4. «Lip Up Fatty» (Bad Manners).
Francesco Ghidetti